venerdì 3 febbraio 2012
"La Via Crucis di Bertone"
Il caso Viganò. Il flop sul San Raffaele. Il protagonismo in politica estera. E le difficoltà sulle finanze vaticane. Perché si ridimensiona Oltretevere il potere del segretario di Stato
DI SANDRO MAGISTER
In Vaticano non ci si combatte con camion e forconi, ma a colpi di carte. Sabato 28 gennaio il consiglio dei ministri della curia romana, presente il papa, ha dedicato una parte della sua riunione a studiare come mettere un argine alle fughe dei documenti.
Ed erano passati solo tre giorni dall’ultima clamorosa fuga: un blocco di lettere confidenziali scritte a Benedetto XVI e al cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone dall’allora segretario del governatorato della Città del Vaticano, oggi nunzio a Washington, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò.
Quelle lettere, più altre carte scottanti che minacciano anch’esse di uscire allo scoperto sulla stampa o in tv, sono un atto d’accusa contro una persona su tutte: quel cardinale Bertone che ha introdotto la citata riunione dei capidicastero di curia spiegando lui come elaborare e pubblicare i documenti della Santa Sede senza più gli infortuni che ne hanno costellato la storia recente. Ci vogliono, ha detto, più competenza, più collaborazione, più fiducia reciproca, più riservatezza. Benedetto XVI ascoltava in silenzio. Gli veniva in mente la peggior prova di malgoverno curiale da lui patita da quando è papa: la valanga di proteste che lo investì non per sua colpa all’inizio del 2009 dopo la revoca della scomunica a quattro vescovi lefebvriani tra i quali uno che negava la Shoah. Dopo quell’incidente, in una lettera aperta ai vescovi di tutto il mondo, papa Ratzinger non esitò a scrivere che gli era venuto più sostegno da «amici ebrei» che da tanti uomini di Chiesa e di curia più interessati a far terra bruciata attorno al papa. E nel finale citò questo terribile monito dell’apostolo Paolo: «Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri».
Di morsi, nelle lettere di Viganò ce ne sono in abbondanza. Prima come direttore del personale della curia vaticana, poi come segretario del governatorato, questo settantenne prelato lombardo ha aggredito molte cose che non funzionavano e si è fatto un gran numero di nemici.
Quando, per cominciare, impose a tutti in curia una tessera elettronica di identificazione e localizzazione, la rivolta in difesa della vita privata si levò universale, ma lui tenne duro. Bertone stava allora dalla sua parte. Anzi, assicurò a Viganò, passato al governatorato, la vicina promozione a governatore dello Stato della Città del Vaticano e a cardinale. Sono nomine che solo il papa può fare, ma che Bertone usa amministrare in proprio con disinvoltura, come fossero cosa sua. Una volta, ad esempio, garantì con tale granitica sicurezza a monsignor Rino Fisichella la sua promozione a numero due della congregazione per la dottrina della fede che questi preparò il trasloco e congedò il proprio segretario, salvo poi scoprire che il nominato
dal papa era un altro.
L’invasione di campo è una nota costante dell’operato del cardinale Bertone, gran tifoso di calcio. Nell’autunno del 2006, da poco nominato segretario di Stato, si mise subito in azione per rifare a suo piacimento il vertice della conferenza episcopale italiana. Pur di impedire al cardinale Angelo Scola di succedere al presidente uscente Camillo Ruini, Bertone candidò a nuovo presidente un uomo di secondo piano a lui docile, l’arcivescovo di Taranto, il cappuccino Benigno Papa.
E tanto martellò la cosa che la stampa nazionale in coro la diede per fatta.
Mancava solo il “placet” di Benedetto XVI, al quale soltanto spettava la nomina e che invece scelse l’arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco. Ma Bertone non rientrò affatto nei ranghi. Il giorno dell’insediamento del nuovo presidente della Cei, il 25 marzo 2007, indirizzò a Bagnasco un messaggio di saluto - scritto tutto di testa sua, di nascosto anche dal papa - nel quale rivendicava alla propria persona, in quanto segretario di Stato, la “guida” della Chiesa italiana per quanto concerne i rapporti con le istituzioni politiche.
Tra i vescovi fu una sollevazione. E da allora non li ha più abbandonati il sospetto che Bertone riprovi ogni volta ad invadere il loro campo. Il contrasto tra la segreteria di Stato e la Cei è ormai il ritornello obbligato di ogni analisi dell’azione politica della Chiesa in Italia.
Ma anche con Benedetto XVI Bertone oltrepassa di frequente la linea. Ratzinger ne sperimentò le doti quando entrambi erano nella congregazione per la dottrina della fede. Al dinamico salesiano dava da sbrogliare le matasse più intricate: dal segreto di Fatima alle bizzarrie del vescovo africano Emmanuel Milingo. E in entrambi i casi Bertone sembrò cavarsela con successo, anche se poi alla lunga entrambi gli riesplosero in mano: nel caso di Fatima con l’accusa mai sopita di aver tenuta nascosta una parte del segreto e nel caso di Milingo con la fuga rocambolesca del personaggio dal confino in cui Bertone l’aveva relegato. Sta di fatto che nominando Bertone segretario di Stato Benedetto XVI pensò di avvalersi della sua sincera devozione e del suo instancabile attivismo per fargli svolgere quei compiti pratici di gestione da cui lui, il papa teologo e dottore, voleva tenersi lontano. Bertone accettò entusiasta, ma interpretò il compito a modo suo. Il papa viaggiava poco? E lui si mise a girare il mondo al suo posto. Il papa se ne stava chino sui libri? E lui si mise freneticamente a tagliar nastri, a incontrare ministri, a benedire folle, a tener discorsi ogni dove e su tutto.
Col risultato che la segreteria di Stato lavora più per l’agenda di Bertone che per il papa. E nella sua agenda il cardinale infila, sempre di testa sua, operazioni anche molto ambiziose e azzardate. L’ultima ha avuto per obiettivo la conquista del San Raffaele, il polo ospedaliero d’eccellenza creato a Milano al discusso sacerdote Luigi Verzé e schiacciato da un miliardo e mezzo di euro di debiti. Per salvarlo e annetterlo alle proprietà della Santa Sede, Bertone ha compiuto all’inizio della scorsa estate una mossa fulminea. Ha lanciato un’offerta di 250 milioni di euro, messi a disposizione dall’Istituto per e Opere di Religione, la banca vaticana, e da un industriale di Genova suo amico, Vittorio Malacalza. E per molti mesi l’offerta è rimasta l’unica sul campo, senza contendenti, impegnando il Vaticano a tenervi fede.
Ma in Vaticano, al vertice, il papa non era affatto d’accordo. Il San Raffaele è un ospedale nel quale si praticano e si progettano biotecnologie contrarie al magistero della Chiesa. Per non dire dell’annessa Università Vita-Salute, nella quale tengono cattedra dei docenti in plateale contrasto con la visione cattolica, da Roberta De Monticelli a Vito Mancuso, da Emanuele Severino a Massimo Cacciari, da Edoardo Boncinelli a Luica Cavalli-Sforza, tutti già sul piede di guerra per difendere la loro libertà d’insegnamento.
L’ordine di Benedetto XVI fu quindi da subito: non comprare. Ma era come se parlasse a dei sordi. Bertone lasciava fare al suo fiduciario, il manager ospedaliero Giuseppe Profiti, vero stratega dell’operazione, che tutto voleva tranne che rinunciare al San Raffaele. Provvidenzialmente, a fine anno arrivò un’altra offerta, più alta, di 405 milioni di euro, da parte di un gruppo ospedaliero concorrente, quello di Giuseppe Rotelli, e il Vaticano potè ritirarsi dal gioco. Con quante macerie, però, attorno a Bertone. Anche alcuni che gli erano stati vicinissimi non lo seguono più.
Malacalza è infuriato per quello che considera un voltafaccia ai suoi danni. Ettore Gotti Tedeschi, il banchiere che proprio Bertone aveva voluto a capo dello Ior, dopo l’iniziale disponibilità ha fatto muro contro l’acquisto, sposando in pieno le ragioni del papa. Sul versante amministrativo e finanziario, in Vaticano si ridisegnano i poteri. Ed è l’esperto e taciturno cardinale Attilio Nicora la nuova stella, nella sua qualità di presidente dell’Autorità di Informazione Finanziaria creata in curia un anno fa per consentire l’ingresso del Vaticano nella “white list” degli Stati con i più alti standard di correttezza e trasparenza nelle operazioni.
Lo scorso novembre in Vaticano c’è stata la visita di sette ispettori di Moneyval, l’organismo internazionale di controllo delle misure antiriciclaggio. E l’esame ha imposto modifiche ancor più restrittive alle leggi vaticane, che il cardinale Nicora ha immediatamente introdotto ma che ancora non sono state rese pubbliche. Tra queste c’è la facoltà per l’Aif non solo di ispezionare ogni operazione di qualsiasi ente collegato con la Santa Sede, compresi lo Ior e il governatorato, ma anche di punire ogni singola violazione con multe fino a 2 milioni di euro. Bertone fece di tutto perché alla testa dell’Aif fosse nominato dal papa non Nicora ma un suo fiduciario, uno dei pochissimi che gli sono rimasti vicini, il professor Giovanni Maria Flick. Nemmeno questa gli è riuscita. La sua parabola è alla fine. (l'Espresso, 9 febbraio 2012)
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