domenica 22 ottobre 2006
S'i' fosse foco
s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;
s'i' fosse Dio, mandereil'en profondo;
s'i' fosse papa, sare' allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s'i' fosse 'mperator, sa' che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.
S'i fosse morte, andarei da mio padre;
s'i' fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi' madre.
S'i' fosse Cecco, com'i' sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.
(Cecco Angiolieri - XIII sec.)
If I were fire I would burn the world,
if I were wind I would whip it with storm
I were water I would drown it,
if I were God I would sink in an abyss.
If I were the pope I would be happy
because I would swindle all the Christians,
if I were the emperor, you know what I would do?
I would cut everybody's head 'round.
If I were death I would go to my father,
if I were life I would run from him,
the same I would do with my mother,
if I were Cecco, as I am and have been,
I would take the youngest and fairest women for myself
and I would leave the old and smelly ones to the others.
sabato 14 ottobre 2006
La rivoluzione di Yunus: credito ai poveri
Quando nacque, nel 1976, era una novità assoluta; eppure la Grameen Bank, in bangladescio «banca rurale», oggi vincitrice del Premio Nobel per la Pace assieme al suo fondatore Mohammed Yunus, da allora è stata imitata in tutti i continenti. La tesi sembrava contraddire ogni principio bancario: prestare soldi, anche pochi soldi, a chi non ha nulla conviene: perché nessuno ripaga i debiti più puntualmente dei poveri.
Si chiama microcredito: bastano pochi dollari per cambiare una vita. Con questa intuizione e tanta voglia di innovare, Mohammed Yunus ha creato una struttura che ha consentito ai poverissimi di comprare le piccole cose della sussistenza, gli oggetti del lavoro quotidiano. E fra questi poverissimi, in prima linea ci sono le donne. Una banca etica dunque, la prima e più grande esistente al mondo. Oggi la Grameen Bank è il quarto istituto finanziario del Bangladesh con oltre diecimila dipendenti, più di cinque milioni di clienti in tutto il paese: oltre il 90% sono donne.
L'assunto della Grameen è che la povertà non è dovuta alla pigrizia ma alla mancanza di capitale e all'impossibilità di risparmiare una somma da investire. Il principio del «microcredito» alla Grameen è semplice: la banca offre sulla fiducia, senza contratto, andando di porta in porta nei villaggi sulla premessa che «la banca deve andare dal popolo» e non viceversa. Il piccolo imprenditore - e spesso la piccola imprenditrice - deve unirsi a un gruppo di clienti, che si controllano a vicenda per garantire meglio la restituzione. La responsabilità del gruppo è solidale, e questo ha finora garantito un tasso di mancate restituzioni inferiore all'1%, molto più basso di quello registrato dagli altri istituti di credito del Bangladesh. I prestiti sono restituiti a rate settimanali o bisettimanali, e ogni cliente può ottenere più di un prestito allo stesso tempo.
La flessibilità del sistema si adatta all'ambiente rurale e i pochi soldi necessari per comprare un aratro, scavare un pozzo, fare un piccolo investimento in bestiame o tessuti possono fare la differenza fra un villaggio vicino alla fame e un villaggio relativamente prospero. La banca punta molto sulle donne e sulle loro capacità imprenditoriali. Il cliente tipico in genere utilizza il prestito per acquistare un bene che possa rendere subito (cotone da filare, una macchina per tessere, animali da cortile, sementi, una mucca da mungere). Grazie ai crediti della Grameen Bank molte donne hanno costituito società collettive per acquistare mulini per la lavorazione del riso.
Muhammad Yunus è un economista, musulmano, di famiglia benestante, laureato negli Stati Uniti. Tornò in patria nel 1972 per assumere l'incarico di direttore del Dipartimento di Economia dell'Università di Chittagong. L'esperienza decisiva della sua vita, a quanto lui stesso racconta, fu la tremenda carestia del 1974. «Mentre la gente moriva di fame per strada, io insegnavo eleganti teorie economiche. Cominciai ad odiarmi per la mia arrogante pretesa di avere una risposta. Noi professori universitari eravamo tutti molto intelligenti ma non sapevamo assolutamente nulla della povertà che ci circondava. Decisi che proprio i poveri sarebbero stati i miei insegnanti. Cominciai a studiarli e a domandargli delle loro vite».
La Grameen Bank, ha scritto Yunus, crede che la povertà «non sia creata dalla mancanza di capacità, ma dalle istituzioni. La carità non è la risposta». Per questo la banca etica «ha portato il credito ai poveri, alle donne, agli illetterati, a quelli che affermavano di non sapere come investire il denato e guadagnarsi un reddito. La Grameen ha creato un metodo e una istituzione attorno alle esigenze finanziarie dei poveri, e ha creato l'accesso al credito in termini ragionevoli». Il Bangladesh, indipendente dal 1971, è classificato tra i paesi del Quarto mondo. Ha 120 milioni di abitanti su una superficie che è la metà di quella italiana. Quasi il 60% della popolazione è analfabeta (il 70% delle donne) e circa il 40% vive in condizioni di estrema povertà.
(La Stampa) (La Repubblica)
venerdì 13 ottobre 2006
Addio a Gillo Pontecorvo
Pochissimi i suoi lavori, sfiorano tutti l'eccellenza.
Tra questi, "La Battaglia di Algeri" è una denuncia politica
del colonialismo.
Con "Kapo", meriterebbe la proiezione nelle scuole a favore di tanti ragazzini che crescono con i fumetti di moda e le favole della mamma.
Moltissime le proposte a cui, in una vita così intensa, ha saputo dire no.
Irene Bignardi fornisce un breve ritratto del regista sulle pagine de La Repubblica.
«Il film medio americano può non arrivare neanche nella provincia americana. Qui invece arriva. E toglie spazio agli autori italiani.»
(Gillo Pontecorvo)
martedì 10 ottobre 2006
Cavalli nelle montagne Tian Shan
(*) Montagne divine.
martedì 3 ottobre 2006
Afghanistan: la nascita del Jihadistan
Nella provincia di Ghazni, a due ore dalla capitale, i corrispondenti del Newsweek si incontrano con un centinaio di loro. E' un gruppo la cui composizione varia dall'adolescente al 55enne, armati con AK e lanciagranate alimentate da razzi.
Il loro capo provinciale, Muhammad Sabir, sostiene di poter disporre di 900 combattenti e di nutrire una nuova fiducia nelle mutate condizioni militari e psicologiche.
"Ora ci possiamo radunare alla luce del giorno. La gente sa che stiamo ritornando al potere".
I Signori della Guerra, foraggiati dai proventi del narco traffico, controllano le aree rurali e godono sempre più del consenso della popolazione disillusa da quanto fatto finora da Karzai e dalla comunità internazionale.
I finanziamenti sono finiti ad alimentare la corruzione del Governo.
Lontano da Kabul, soprattutto nella zona lungo il confine con il Pakistan, le tribù Pashtun stanno ricreando le condizioni di cui raccontava Kipling nell'800.
Quella zona può essere chiamata "Jihadistan" e i suoi militanti guadagnano il doppio delle milizie nazionali.
In realtà, in Afghanistan si è investito pochissimo.
Le cifre impegnate sono riportate dal Newsweek e confrontate con quelle molto più consistenti di Bosnia, Kosovo, Timor Est.
Mancano le infrastrutture, un governo ed un sistema giudiziario efficienti.
"Where the roads end, the Taliban begin."
(Gen. Karl Eikenberry)
La situazione è sfuggita di mano.
Gli inglesi l'hanno ammesso già da tempo.
A questi si sono aggiunti i tedeschi che, per bocca del loro ambasciatore Hans-Ulrich Seidt, affermano:
"potrebbe accadere che il governo afgano perda completamente la padronanza degli eventi nei prossimi 12-18 mesi, i soldati della Nato non riusciranno mai ad assumere il controllo del sud dell'Afghanistan."
Per questo il ministro della Difesa tedesco Franz Josef Jung ha auspicato che la strategia della Nato in Afghanistan subisca un cambiamento radicale e si focalizzi sulla «sicurezza e la ricostruzione». «Le persone devono rendersi conto che non siamo forze di occupazione ma piuttosto che siamo lì per aiutarli».
In Italia?
Oggi, 3 ottobre, l'Ulivo si riunisce per affrontare il tema.
D'Alema potrebbe ritrovarsi, a breve, a dover bombardare di nuovo.
sabato 30 settembre 2006
Newsweek e la Jihad
Europa, Asia e Sud America, infatti, possono leggere l'interessante articolo che denuncia un'altra sconfitta dell'amministrazione Bush.
In Patria, invece, si preferisce puntare i riflettori su Annie Leibovitz, la fotografa delle celebrità.
In copertina non troviamo un combattente armato della "guerra santa" ma un felice quadretto familiare di una mamma in carriera ed i suoi tre figli.
Al Kamen, del Washington Post, analizza l'incapacità degli americani nel sapere affrontare la verità.
venerdì 29 settembre 2006
L'America rende legale la tortura
Il 28 settembre 2006 sarà un giorno da ricordare. Per gli americani e per il mondo.
Il Parlamento ha approvato (253 / 168 alla Camera e 65 / 34 al Senato) il disegno di Legge proposto da Bush sulla tortura.
Dodici Democratici l'hanno sostenuta, un Repubblicano, Lincoln Chafee, si è opposto.
Al senato, Arlen Specter ha cercato di includere un emendamento che permettesse agli stranieri indicati come "nemici combattenti" di invocare la giurisdizione delle Corti statunitensi per verificare la costituzionalità o la legalità della loro detenzione.
Tentativo fallito per 51 voti contro 48. I Repubblicani non hanno alcun interesse nell'habeas corpus. Solo tre di loro, Chafee, Gordon Smith e John Sununu hanno votato l'emendamento. Il Democratico Ben Nelson ha votato contro.
Il Presidente avrà il potere di prendere le decisioni chiave per quanto riguarda l'applicazione della Convenzione di Ginevra e l'habeas corpus relativamente ai "nemici combattenti" di cui egli stesso ha fornito la definizione.
La CIA, quindi, potrà arbitrariamente detenere a tempo indeterminato chi fosse anche solo sospettato di favoreggiamento di attività ostili agli USA.
Potrà trattenerlo per decenni in prigione, se non procurargli la morte.
The Washington Post e The New Republic non usano mezzi termini nel condannare la nuova Legge.
L'America, da oggi, non avrà più niente da invidiare ai Khmer Rossi.
martedì 19 settembre 2006
Uzonka, la cicogna
Si era rotta il becco in un assalto.
(BBC News)
lunedì 18 settembre 2006
Puoi toglierti dalla luce del sole
- Sono cittadino del mondo intero.
- C'è un sogno che ci sta sognando.
- Il tempo è lo specchio dell'eternità.
- Meglio essere povero sulla terra che ricco in mare.
- La folla è madre di tiranni.
- Preferisco avere una goccia di fortuna che una botte di saggezza.
- Cosa è un filosofo che non danneggia i sentimenti di qualcuno?
- A quale età un uomo deve prender moglie? Da giovane non ancora, da vecchio mai.
- Nessuno patisce danno se non per propria mano.
- I re saggi generalmente hanno saggi consiglieri, perché l'uomo capace di distinguere un saggio deve essere saggio egli stesso.
La proteina dell'invecchiamento
Da oggi, grazie a tre studi indipendenti tutti pubblicati sulla prestigiosa rivista britannica Nature, si conosce il colpevole di questo 'stato di abbandono' nel nostro corpo: una molecola che aumenta con gli anni, via via impedendo alle cellule progenitrici dei vari tessuti, le staminali adulte, di compiere quel ricambio cellulare necessario alla loro manutenzione. Senza queste 'cure', hanno spiegato i tre gruppi di ricerca -rispettivamente al Harvard Stem Cell Institute di Boston, alla University of North Carolina (UNC) presso Chapel Hill e alla University of Michigan presso Ann Arbor- il funzionamento del corpo diventa claudicante e noi invecchiamo.
La proteina, 'p16INK4a', gia' nota agli esperti per il suo ruolo di primo piano nel proteggerci dal cancro, causa quindi quel processo di senescenza cellulare a carico delle staminali, rendendole a un certo punto incapaci di proliferare e produrre nuove cellule che sostituiscano quelle usurate di organi e tessuti. Poiche' la quantita' cellulare di p16INK4a aumenta con gli anni, hanno spiegato gli scienziati, il primo sviluppo di questa importantissima scoperta e' che p16INK4a potrebbe divenire un marcatore per testare l'efficacia di nuovi ipotetici prodotti contro l'invecchiamento. Ma se un giorno si riuscisse a modificare la quantita' di p16INK4a in modo che tale intervento non ci metta a rischio di cancro, la "molecola della vecchiaia" potrebbe divenire un bersaglio di nuove terapie per rallentare i segni del tempo.
Ogni organo e tessuto del nostro corpo possiede un'officina di manutenzione dove sono al lavoro le cellule staminali adulte. Via via che ce n'e' bisogno, queste staminali si dividono dando sia cellule adulte che sostituiscono quelle usurate, sia altre staminali che rimangono come "sorgente di giovinezza". Per comprendere questo processo di ricambio basti pensare alla pelle: lo strato piu' superficiale viene continuamente eliminato e in profondita' c'e' un letto di staminali cutanee pronto a rifornire di nuove cellule la pelle. A un certo punto, pero', l'eta' avanza e compaiono le odiate rughe. Perche'? Quei brutti segni indicano che il ricambio cellulare non avviene piu' come dovrebbe e le staminali cutanee non producono piu' come in passato cellule della pelle nuove di zecca. Insomma, le staminali cutanee, e lo stesso avviene per gli altri organi del corpo, si sono impigrite, si dividono poco e sono ormai senescenti. Finora le basi di questo meccanismo erano sconosciute, ma si sapeva che esso e' funzionale ad evitare la formazione di tumori. Infatti, con gli anni e il susseguirsi di generazioni di cellule staminali, queste accumulano errori nel loro codice genetico e possono dar vita a un tumore. Un imperscrutabile equilibrio fa si' che cio' non avvenga mandando le staminali 'in pensione', ma il pegno da pagare e' che invecchiamo. Ebbene, gli scienziati hanno scoperto che detentore dello scettro di questo equilibrio e' proprio la proteina p16INK4a. In particolare, l'equipe di Janakiraman Krishnamurthy della UNC ha mostrato il ruolo di p16INK4a nelle cellule produttrici di insulina nel pancreas. Quando invecchiamo quest'organo non e' piu' efficace nel regolare la glicemia e in molti casi si sviluppa il diabete; gli esperti hanno scoperto che p16INK4a aumenta nelle staminali pancreatiche mettendole 'KO' e questo processo e' direttamente collegato all'efficienza del pancreas nel produrre insulina. Topolini transgenici senza p16INK4a, infatti, continuano anche da vecchi ad avere proliferazione delle cellule produttrici di insulina.
Nello studio di Sean Morrison del Michigan, invece, e' stato esaminato il ruolo di p16INK4a nella senescenza delle staminali neurali: anche in questo caso la molecola aumenta con l'eta' e la senescenza di queste staminali e' rallentata in topolini privi della proteina. Stessi risultati anche per le staminali emopoietiche, la fonte di ricambio per le cellule del sangue, studiate dal team di Harvard diretto da David Scadden.
Sembra chiaro, concludono gli esperti, che modulare l'aumento di p16INK4a negli anni potrebbe essere una delle strategie per rallentare il processo di invecchiamento, anche se la proteina p16INK4a non e' l'unico attore in gioco e il suo ruolo protettivo contro i tumori la rende indispensabile e, quindi, non eliminabile tout court.
Per approfondimenti:
Il Kenya, quella era la sua casa.
"Suor Leonella era ancora viva, sudava freddo. Ci siamo prese per mano, ci siamo guardate e, prima di spegnersi come una candelina, per tre volte mi ha ripetuto perdono. Perdono, perdono, perdono...Queste sono state le sue ultime parole"
Un dolore composto, un ricordo dolce e amaro nello stesso tempo, il ricordo di una donna che aveva dedicato all'Africa tutta la sua vita e che in Africa è andata a morire e per dedicarsi al prossimo.
Piange con compostezza Giuseppina Sgorbati, sorella di Rosa, la religiosa uccisa oggi a Mogadiscio. E nel suo appartamento, alla periferia di Milano, ricorda l'ultima volta che si erano sentite, al telefono, due giorni fa.
"Le ripetevo sempre 'stai attenta, stai attenta', quando passava a salutarmi a Milano o ogni volta che la sentivo al telefono".
Ora può ripetere soltanto che non tornerà più, neanche da morta. "Mia sorella non tornerà - dice Giuseppina - Lei voleva essere seppellita in Kenya, quella era la sua casa".
La missionaria, infatti, solo da quattro anni viveva in Somalia, dove insegnava in una scuola di infermieri professionali nell'Ospedale Sos di Mogadiscio. Per il resto quasi tutta la sua vita l'aveva spesa in Kenya.
"La chiamava spesso, però, - racconta Paolo Villa, figlio di Giuseppina e nipote della suora -. Mia madre l'aveva sentita appunto due giorni fa". E, come sempre, le aveva ripetuto di fare attenzione. Ma suor Leonella (questo il nome che Rosa Sgorbati aveva assunto quando era entrata nel 1963, a 23 anni, nel convento delle suore missionarie della Consolata) le aveva risposto con le parole che usava sempre: "Se dovrà succedere, succederà, altrimenti la pallottola mi passerà solo vicino".
Parole di chi sa di andare incontro a situazioni di estremo pericolo, ma allo stesso tempo parole decise, come era nel suo stile, a dimostrare una volontà tenace di portare a termine quelle opere di bene per aiutare i Paesi più poveri e difficili.
"Era una persona attenta, valida e capace, perfettamente conscia dei rischi a cui andava incontro - racconta il nipote di fronte alla casa di sua madre Giuseppina, nella zona est di Milano - I pericoli li sapeva gestire perchè aveva una caratteristica importantissima per chi fa il missionario, era dolcissima e gentile".
Negli ultimi anni Suor Leonella faceva avanti indietro tra il Kenya, dove era arrivata per la prima volta nel 1970 e che era ormai diventato il suo paese d'adozione, e la Somalia, dove l'aspettavano i suoi allievi infermieri. La Somalia, però, nei mesi scorsi le aveva negato i permessi per farla rientrare.
'Troppo pericoloso', le avevano anche detto.
"Ci aveva ripetuto più volte che Mogadiscio era una città a rischio per lei - spiega Paolo Villa - Il rischio, però, ci diceva, rientrava nella sua attività ".
A Natale la suora, originaria di Gazzola, in provincia di Piacenza, aveva trovato, comunque, il tempo per tornare in Italia e si era subito precipitata a Milano per riabbracciare la sorella Giuseppina.
Racconto dell'accaduto:
La Repubblica
Corriere Della Sera / sviluppi (Alberizzi, inviato a Mogadiscio)
domenica 17 settembre 2006
Un'altra Umanità
Abitò l'Europa e parte dell'Asia centrale e occidentale, precedendo l'uomo moderno.
Comparso 300mila anni fa, non è un nostro antenato. Non è un sapiens arcaico, ma un altro uomo, che discende come noi dall'Homo erectus.
La ricercatrice Marylène Patou-Mathis, che da vent'anni studia l'uomo di Neandertal, ne è convinta e descrive un'inattesa "umanità neandertaliana": erano dei grandi cacciatori nomadi, mangiatori di carne, si coprivano con le pelli, controllavano il fuoco e avevano dei rituali funebri. Conoscevano il senso della vita e della morte, la tecnica e la metafisica. E a giudicare dalla loro laringe e dai loro lobi temporali forse parlavano. Ma se erano così evoluti perché si sono estinti? Per Patou-Mathis la tesi di una guerra con il nostro antenato di Cro-Magnon non regge.
Non tanto perché Neandertal era più forte e avrebbe vinto. Ma perché era pacifico: finora non è stato trovato alcun sito che testimoni di una guerra tra i due uomini, né uno in cui dei neandertaliani si uccidono tra loro (al contrario del sapiens). Neandertal ha ceduto alla pressione dei nostri antenati senza combattere, è fuggito verso nord e in diecimila anni è scomparso.
"La vera questione non è perché i Neandertal erano così divergenti ma perché la nostra specie ha portato così tante caratteristiche nuove".- Erik Trinkaus, Washington University di St. Louis
Approfondimenti:
- Evoluzione umana (Museo di Ferrara)
- Neandertal e homo sapiens, una convivenza di 4000 anni (La Repubblica)
- Gorham's Cave (Museo di Gibilterra)
sabato 16 settembre 2006
Islam. Le scuse del Papa.
Un peccato di presunzione.
Il teologo ha voluto approfittare della platea concessa al Pontefice.
Il successore di Pietro e, quindi, di Cristo avrebbe dovuto rileggere una volta di più quanto destinato fino all'altro ieri alle pagine di un libro. Ad altre menti ma anche ad altri sbadigli.
Proteste prevedibili si sono alzate non solo dal mondo islamico.
Di seguito alcuni articoli che riassumono i fatti:
- Il testo del discorso
- Dichiarazione Bertone
- Il Corriere Della Sera (Messori)
- L'Unità
- La Repubblica
- New York Times
- Asia News (Padre Samir Khalil Samir)
- El Pais
- La Repubblica (Scalfari, 17 sett.)
- La Repubblica (B. Valli, 19 sett.)
venerdì 15 settembre 2006
Oriana Fallaci (1929-2006)
Chi ama la vita non riesce mai ad adeguarsi, subire, farsi comandare. Chi ama la vita è sempre con il fucile alla finestra per difendere la vita… Un essere umano che si adegua, che subisce, che si fa comandare, non è un essere umano»
(da un’intervista del 1979, Luciano Simonelli)
«Non amo i messicani.
Se hai una pistola e ti dicono di scegliere chi è peggio tra i musulmani e i messicani avrei un attimo di esitazione; poi sceglierei i musulmani perché mi hanno scassato le palle»
(da un’intervista del 2006, New Yorker)
Galleria Fotografica
giovedì 14 settembre 2006
O' Capitano: emblema della disfatta.
La stampa spagnola accusa
'Cannavaro emblema della disfatta'
"Il difensore e' stato l'immagine di un Real Madrid caotico ", questa l'analisi del quotidiano spagnolo As sulla sconfitta in Champions League del Real Madrid in casa del Lione
"Non ha funzionato nulla e quello che ha piu' sorpreso e' stata la nefasta partita di Fabio Cannavaro, coinvolto intutte le peggiori azioni, gol del Lione compresi".
"Il difensore e' stato l'immagine di un Real Madrid caotico ", questa l'analisi del sito del quotidiano spagnolo As sulla sconfitta di ieri del Real Madrid in casa del Lione. Un secco 0-2 che condanna la squadra di Capello, protagonista di una prestazione davvero deludente.
La stampa iberica punta il dito su Cannavaro ed in effetti la partita del capitano dei campioni del mondo e' stata da dimenticare. "Per lui una serata nera: lento, insicuro e confuso, Cannavaro e' stato l'immagine di questo Real Madrid disordinato, sconclusionato e caotico".
As non risparmia neanche Emerson ("esasperante la sua lentezza, ha perso tutte le battaglie in mezzo al campo e ha lasciato giocare Juninho") e Raul, ma ne ha anche per Cassano definito: "assente e disinteressato".
"Il Real - ha concluso As - ha giocato meglio quando sono entrati giocatori che giocano la palla con criterio: Guti, Reyes e Robinho. Adesso e' compito di Capello trovare una soluzione e rivedere l'11 titolare che ha scelto". (Il Resto Del Carlino)
Dopo le eccellenti prestazioni al Mondiale, sembra essersi riallineato agli standard consigliatigli dal signor Moggi quando lavorava per l'Inter.
Troppi salamini?
O nuovi consigli?
mercoledì 13 settembre 2006
Schiavi polacchi scomparsi nel nulla
119 cittadini polacchi impiegati nella raccolta dei pomodori non danno più notizie di sé. I caporali, loro connazionali, non parlano. I padroni, italiani semi analfabeti, spiegano con assurde parole delle strane morti.
Sono gli schiavi del nuovo millennio.
Retribuiti pochissimo e trattati peggio delle bestie. Che qualcuno fermi i colpevoli. Presto.
lunedì 11 settembre 2006
11 settembre 2001
- 2749 morti ufficiali nelle due torri
- 343 morti tra i Vigili del Fuoco
- 3000 morti tra i soldati inviati in Medioriente
- 3000 morti/mese in Iraq
11 settembre 1973
che portò Pinochet al potere fino al 1990.
In questi anni:
- Decine di migliaia di morti
- Centinaia di migliaia di torturati
La vera morte di un presidente
- Gabriel Garcia MarquezNell'ora della della battaglia finale, con il paese alla mercé delle forze della sovversione, Salvador Allende continuó afferrato alla legalitá.La contraddizione piú drammatica della sua vita fu quella di essere, contemporaneamente, nemico della violenza ed appassionato rivoluzionario, e credeva di averla risolta con l'ipotesi che le condizioni del Cile consentivano una evoluzione pacifica verso il socialismo, all'interno della legalitá borghese.L'esperienza gli insegnó troppo tardi che non si puó cambiare un sistema dal governo, ma dal potere.Questa tardiva constatazione forse fu la forza che lo spinse a resistere fino alla morte, tra le macerie fumanti di una casa che non era nemmeno sua, una residenza costruita da un architetto italiano destinata alla zecca dello Stato, e terminó convertita in un rifugio per un Presidente senza potere.Resistette per sei ore, impugnando il mitra che gli aveva regalato Fidel Castro, fu la prima arma che Salvador Allende usó in vita sua.Il giornalista Augusto Olivares che rimase al suo fianco sino alla fine, ricevette numerose ferite e morí dissanguato in un ambulatorio pubblico.Verso le quattro del pomeriggio, il generale di divisione Javier Palacio, riuscí ad occupare il secondo piano, con il suo aiutante capitano Gallardo e un gruppo di ufficiali. Lí, tra le poltrone finto Luigi XV, il vasellame di dragoni cinesi e i quadri di Rugenda del salone rosso, Salvador Allende stava aspettandoli. Aveva un casco da minatore, stava in maniche di camicia, senza cravatta e con i vestiti macchiati di sangue. Impugnava il mitra.Allende conosceva il generale Palacio. Pochi giorni prima aveva detto ad Augusto Olivares che quello era un uomo pericoloso, perché manteneva stretti contatti con l'ambasciata degli Stati Uniti. Come lo vide apparire dalla scalinata, Allende gridó: "Traditore!" e gli riuscí di ferirlo ad una mano.Allende morí a seguito dello scambio di raffiche con questa pattuglia. Poi, tutti gli ufficiali, quasi seguendo un rito di casta, spararono sul suo corpo. Alla fine, un ufficiale lo sfiguró con il calcio di un fucile. Esiste una forografia: la scattó il fotografo Juan Enrique Lira, del giornale El Mercurio, l'unico autorizzato a fotografare il cadavere. Era tanto sfigurato che, alla signora Hortensia, sua moglie, mostrarono il corpo solo quando stava nella bara. E non permisero che scoprisse il volto.Allende aveva compiuto 64 anni in luglio, era un Leone tipico: tenace, deciso e imprevedibile. Quel che pensa Allende lo sa solo Allende, mi disse una volta un suo ministro. Amava la vita, amava i fiori e i cani, era di modi galanti come si usava in altri tempi.La sua maggiore virtú fu quella di essere conseguente, peró il destino gli riservó la rara e tragica grandezza di morire difendendo con le armi l'anacronistico diritto borghese; difendendo una Corte Suprema che lo aveva ripudiato e che poi legittimó i suoi assassini; difese un miserevole Parlamento che aveva contestato la sua legittimitá e che poi finí per arrendersi agli usurpatori; difendendo i partiti dell'opposizione che avevano giá venduto la loro anima al fascismo; difendendo tutti gli ammennicoli di un sistema tarlato che si era impegnato ad annichilire senza sparare una sola pallottola.Il dramma accadde in Cile, per disgrazia dei cileni, peró passerá alla storia come qualcosa che irrimediabilmente coinvolse tutti gli uomini del tempo, destinato a rimanere per sempre nelle nostre vite.
I Newyorkesi studiano Israele
Il corso, realizzato dal consolato israeliano a New York, è inteso, così ha detto il console Aryel Mekel,
«a formare attraverso gli insegnanti una generazione di leader educati a mantenere la relazione speciale tra Stati Uniti e Israele»
("New Yorkers to study about Israel", Yaniv Halili - Y Net News)
domenica 10 settembre 2006
La F1 non è uno sport. È soltanto un business
Diceva qualche anno fa Flavio Briatore.
Un problema può succedere anche a noi ma non cambierà mai niente, le cose non cambiano mai. Una volata? Non c'è nessuna volata perché il mondiale è già assegnato. Alcune cose non dovevano succedere. Adesso saranno contenti. Calciopoli, a confronto, fa ridere.
Alla fine del GP di Monza, oggi.
Il «Tribüla» sa come vanno le cose al mondo.
Dal poker e lo chemin-de-fer alla formula Uno.
Dalle bische clandestine alle ville in Sardegna.
Donne bellissime, politici, nobiltà.
Non si fa mancare neppure qualche bomba.
Una vita vissuta ad alta velocità.
Forze armate prêt-à-porter
E se fossimo partiti con il piede sbagliato? E se nella fretta di arrivare primi con armi e bagagli a Tiro avessimo dimenticato la lezione di Nassiriya? Perché l'unico documento trapelato dal segreto che circonda la missione libanese apre la strada a più di una perplessità sulla gestione dell'operazione italiana. A partire dalla composizione del contingente. Finora abbiamo fatto arrivare in zona solo una ventina di blindati: i mezzi anfibi che hanno fatto da vedette nello show televisivo dello sbarco e una manciata di cingolati Vcc. Nessuno di questi veicoli è in grado di resistere ai razzi Rpg che pullulano nelle riserve di Hezbollah, ma anche nelle armerie delle fazioni libanesi minori.
Per il Vcc, poi, si tratta di un replay: in servizio da trent'anni, sono esattamente gli stessi che sbarcarono a Beirut con la spedizione del 1983. Non senza ironia, l'esercito li ha battezzati 'Camillino' perché ricordano un gelato in voga negli anni Settanta: biscotto all'esterno, panna dentro. Adesso per renderli un po' più protetti, al biscotto hanno incollato altre corazze, ma nessuno scommette sulla capacità di fermare i missili di Hezbollah: a Mogadiscio i razzi dei miliziani hanno dimostrato di bucarli senza problemi. E in 13 anni non si sono ancora trovati i fondi per rimpiazzare i Vcc dalla prima linea. Così mandiamo i soldati con i Camillino dal cuore di panna nelle colline dove le divisioni corazzate più potenti del pianeta hanno fallito. Diversa la linea dei francesi, che per prima cosa hanno spedito in Libano tutto quello che avevano di più pesante, a partire dai tredici carri armati Leclerc, mostri d'acciaio da 56 tonnellate. Invece noi ci presentiamo a sud del Litani con una avanguardia molto light, troppo leggera anche per una missione dalle intenzioni pacifiche: ci sono quasi più ambulanze che blindati.
La relazione tecnica di bilancio redatta dallo Stato maggiore evidenzia altri punti molto controversi. La questione centrale è quella della componente navale. Nei primi due mesi di Libano l'Italia spenderà 53 milioni di euro per la flotta e solo 30 per i militari impegnati a terra. Perché se l'indicazione del ministro Arturo Parisi era stata chiara ('boots not boats', ossia 'scarponi e non navi'), i vertici delle Forze armate hanno mischiato le carte in modo che lo schieramento privilegiasse la prova di forza della Marina. Anche accettando che, con un eccesso di cautela, la prima ondata venisse affidata alla parata della Garibaldi e delle altre tre mini-portaerei, non si capisce perché le navi da sbarco debbano rimanere fino a dicembre a largo di Tiro. L'unica spiegazione militare potrebbe essere quella di garantire un rapido ritorno a bordo del contingente: ma neanche i peggiori critici del governo ipotizzano uno scenario così nero.
Trasportare il contingente con le navi da sbarco, in gergo Lpd, costa un capitale: sono previsti circa 20 milioni di euro, tra spese vive e le indennità per gli equipaggi. Infatti i marinai imbarcati ricevono lo stesso straordinario dei marines impegnati a terra: 276 euro al giorno.
L'alternativa? Fare come in tutte le altre operazioni dell'ultimo decennio: noleggiare dei grandi traghetti dove caricare uomini e mezzi. Nelle stesse ore dello sbarco sulla spiaggia di Tiro, nel porto di Beirut è approdato uno di questi enormi mercantili con 81 veicoli pesanti e tutti i materiali del genio, che poi hanno percorso gli 80 chilometri di strada fino all'accampamento italiano. Il costo? Per ciascun viaggio 250 mila euro. Si stima che con dieci traghetti si potrebbe trasferire l'intero contingente: 2 milioni e mezzo contro i 20 preventivati. È chiaro: lo show ne perde, ma il risultato è più efficace ed economico.
Il bilancio stilato dai vertici militari segnala altre sorprese. Come gli elicotteri Mangusta, le cannoniere volanti che hanno un grande potere di dissuasione sui guerriglieri: in Libano ne porteremo quattro. In questo caso, non si ripeterà l'errore iracheno, quando questi velivoli vennero fatti intervenire solo dopo la morte di un maresciallo. Ma si prevede di farli arrivare a Tiro smontati: solo per scomporre, imballare e riassemblare questa squadriglia si spenderanno 3 milioni di euro. Domanda: non si poteva farli atterrare su una delle quattro portaerei e poi farli ridecollare sulla costa dei Fenici? In Somalia si fece così. E da allora si va ripetendo la necessità di abilitare i piloti dell'Esercito a operare sulle navi. Invece, 13 anni dopo ricompare il trasloco in scatola di montaggio, come i modellini di una volta, al costo di 6 miliardi di lire.
A dire la verità, di elicotteri il contingente ne avrà pochini: a dicembre saranno dieci in tutto. Quattro da combattimento, due da trasporto pesante e quattro medi. E pensare che proprio gli elicotteri dal 1978 a oggi hanno testimoniato la presenza italiana in Libano: equipaggi che hanno conquistato la stima della popolazione e delle fazioni in lotta. In compenso, adesso ci sono i potenti cacciabombardieri Harrier dell'aviazione di Marina. Mezzi temibili, ma che nessuno pensa sorvoleranno la terraferma: la risoluzione Onu non ne parla e gli spazi aerei ristrettissimi al confine tra Israele e Siria non si prestano alle acrobazie dei nostri marinai-piloti, considerati tra i migliori al mondo. La spesa? Fino a ottobre 1.656.000 euro.
Infine le mine. Kofi Annan in persona ha denunciato il rischio in cui vive tutta la regione: tra le trappole esplosive nascoste dagli Hezbollah e le granate delle cluster bombs israeliane ci sono 100 mila ordigni in giro. Ma nei primi due mesi i nostri soldati hanno a disposizione 300 mila euro per ripulire la zona dalla minaccia. Poco più della stessa somma che è stata stanziata per il vitto e l'alloggio dei 20 uomini che seguiranno il generale Fabrizio Castagnetti al Palazzo di Vetro: 240 mila euro per garantire una degna rappresentanza tricolore nella catena di comando a New York. Mentre le risorse per rendere sicure campi e strade sono addirittura pari alla carissima bolletta del satellite, altri 300 mila euro di comunicazioni.
La guerra alle mine, una delle necessità più urgenti per la popolazione, da novembre in poi riceverà un altro mezzo milione di euro. Senza che però i nostri genieri dispongano di mezzi moderni: siamo l'unica forza europea priva di apparati corazzati o teleguidati per questo compito. Ma la radice della questione è sempre la stessa: dal 1996 le missioni si sono accavallate una dietro l'altra, logorando gli arsenali senza mai trovare finanziamenti per ridare fiato alle dotazioni. Persino i programmi più importanti per garantire la sicurezza dei militari all'estero vengono rinviati in continuazione. L'ultimo capitolo riguarda le jeep a prova di mina: prodotte in Italia, sono state adottate da Londra, Oslo, Bruxelles e Berlino. Persino gli americani le stanno esaminando, per studiare sostituti alle loro Hummer. E Roma? I fondi sono centellinati, goccia dopo goccia: le jeep dovevano entrare in servizio nel 2004, invece finora ne sono state acquistate pochissime che servono per i test nei poligoni. Non sarebbe meglio risparmiare su altro e porre la sicurezza al primo posto? Il bilancio libanese è pieno di voci così criptiche da sfuggire persino all'interpretazione degli esperti: ci sono 800 mila euro per 'assetti Cis', l'ultimo nato degli acronimi bellici che forse indica 'Command information system', ossia un sistema informatico satellitare per le operazioni multinazionali. Un bel gadget tecnologico, del quale forse si potrebbe fare a meno. Mentre sul 'Camillino' rischiano la vita ragazzi nati dieci anno dopo l'entrata in servizio del blindato 'con il cuore di panna'
L' Espresso 8-9-06
sabato 9 settembre 2006
Bush ed il fallimento in Iraq
Un nuovo sondaggio della CNN mostra come i Repubblicani siano già in difficoltà per le imminenti elezioni di novembre.• President Bush was driven by a visceral hatred of Saddam Hussein, which he privately demonstrated in expletive-laden tirades against the Iraqi dictator. In May 2002--months before he asked Congress for authority to attack Saddam--Bush bluntly revealed his ultimate game plan in a candid moment with two aides. When told that reporter Helen Thomas was questioning the need to oust Saddam by force, Bush snapped: “Did you tell her I intend to kick his sorry mother fucking ass all over the Mideast?” In a meeting with congressional leaders, the President angrily thrust his middle finger inches in front of the face of Senator Tom Daschle to illustrate Saddam’s attitude toward the United States.
• When Bush was first briefed that no WMDs had been found in Iraq, he was totally unfazed and asked few questions. “I’m not sure I’ve spoken to anyone at that level who seemed less inquisitive,” the briefer told the authors.• After the [Iraq] invasion [in March 2003], Dick Cheney’s aides desperately sifted through raw intelligence nuggets in search of any evidence that would justify the war. On one occasion they sent the WMD hunters in Iraq a satellite photo that they suspected showed a hiding place for WMDs. But it was only an overhead photo of a watering hole for cows.
• Many of the White House’s most dramatic claims about the threat posed by weapons of mass destruction were repeatedly questioned by senior members of the U.S. intelligence community-but these dissents and views were suppressed or ignored by the White House. Admiral Thomas Wilson, the director of the Defense Intelligence Agency until May 2002, is quoted in the book as casting doubt on virtually the entire White House case for an invasion of Iraq. “I didn’t really think [Iraq] had a nuclear program,” retired Admiral Wilson told the authors. “I didn’t think [Saddam and Iraq] were an immediate threat on WMD.”
• Congressional leaders on both sides of the aisle seriously doubted the case for war--and questioned the top-secret briefings they received directly from Cheney. One senior Republican, House Majority Leader Dick Armey, warned the President in a September 2002 meeting that Bush would be stuck in a “quagmire” if he invaded Iraq. But Armey and others were afraid for political reasons to challenge the White House on the prewar intelligence.
Il tricolore stretto al polso
Rimini-Juventus 1-1
Passata in vantaggio grazie a Paro al 15', non è riuscita poi a gestire il vantaggio, nemmeno quando nel Rimini è stato espulso Cristiano. La squadra di Acori si è gettata in avanti generosamente e ha raggiunto il pari col suo uomo migliore, l'italo-argentino Ricchiuti. Risultato giusto, per quello che si è visto in campo.
Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me.
(Immanuel Kant)
Iraq ed al Qaeda. Solo bugie
Saddam Hussein non aveva alcuna fiducia in Al Qaeda e considerava gli estremisti islamici come minacce al suo stesso regime, rifiutando tutte le richieste di aiuto materiale e operativo pervenutegli.
«Si tratta di una prova schiacciante dei tentativi ingannevoli, fuorvianti e mistificatori di manipolare le informazioni da parte dell'amministrazione Bush-Cheney.-Carl Levin, Senatore democratico
Ancora il 21 agosto scorso il presidente Bush ha sostenuto l'esistenza di un legame tra Saddam e Zarqawi»
Sen. John Rockefeller, D-W.Va.
"Saddam wasn't going to attack us. He would've been isolated there. He would have been in control of that country but we wouldn't have depleted our resources preventing us from prosecuting a war on terror which is what this is all about."
Rockefeller went a step further. He says the world would be better off today if the United States had never invaded Iraq — even if it means Saddam Hussein would still be running Iraq.
Watch the Rockefeller interview.
Read the Senate committee report on information provided by the Iraqi National Congress. (211 pgs.)
Read the committee report on Iraq's alleged terror links. (151 pgs.)
venerdì 8 settembre 2006
Tabbouleh libanese
Il Libano, così come i confinanti Siria e Giordania,
è il luogo dove si può trovare la migliore cucina araba:
prodotti eccezionalmente freschi trattati con mano leggera.
Il Tabbouleh è un antico piatto libanese le cui origini sono contese fra tutti i popoli nordafricani. Molte sono le ricette diversamente interpretate a seconda del periodo e dell’area di preparazione. Propongo quella che prevede il pomodoro.
Ingredienti
300 gr. di bourghul – sale - 6 pomodorini ciliegini - 1 cipolla bianca - 1 mazzetto di prezzemolo - 1 manciata di foglie di menta fresca - succo di 1 limone - 1⁄2 cucchiaino di semi di cumino pestati - 4 cucchiai d’olio d’oliva.
Preparazione
Sciacquate il bourghul, versatelo in una pentola, aggiungetevi 1⁄2 litro d’acqua bollente salata e lasciatelo gonfiare per circa mezz’ora dopo aver incoperchiato.
Nel frattempo pulite, lavate, asciugate e tagliate a cubetti i pomodorini, mondate ed affettate la cipolla a sottili fettine.
Quando il bourghul sarà adeguatamente gonfiato, versatelo in una terrina, mescolatevi i pomodorini e la cipolla, aggiungetevi le foglie di menta e prezzemolo tritate, il succo di limone, ed i semi di cumino.
Bagnate con l’olio d’oliva, mescolate nuovamente e poi lasciate il Tabbouleh al fresco per un’ora prima di servire.
*bourghul
grano pregermogliato, seccato e tritato, volgarmente detto “grano spezzato”.
Dewey Redman
“I like to think of myself as an original.
I have my own sound. That's not easy to come by, I worked on it for many years. But I like to think that I sound like Dewey Redman” –Dewey Redman
“What I reach for first when I play is sound.
Technique maybe, but there is technique in sound.” –Dewey Redman
Dewey passed away on September 2nd at age 75 due to liver failure. Probably his music will finally receive the level of recognition it always deserved.
(Jazz Police)
lunedì 4 settembre 2006
Caro Cipe...
non sono riuscito a dirti quello che volevo, per paura di farti capire che il tempo era inesorabile e la malattia terribile.
Scusami, ma credo che ti debba ringraziare soprattutto per la pazienza che hai sempre avuto con me.
Per i tuoi occhi che sorridevano, fino alla fine, ai miei entusiasmi o all’ironia con cui cercavo di superare insieme a te momenti difficili.
Pochi giorni fa, pochissimi, mi parlavi con un filo di voce - e con l’espressione di chi ti vuole bene - dell’Inter, proiettando il tuo pensiero in un futuro che andava oltre le nostre povere, ignoranti, possibilità umane.
Qualche mese fa ti chiedevo un po’ scherzando un po’ sul serio come mai non riuscivamo ad avere un arbitro amico, tanto da sentirci almeno una volta protetti, e tu, con uno sguardo fra il dolce e il severo, mi rispondesti che questa cosa non potevo chiedertela, non ne eri capace.
Fantastico. Non ne era capace la tua grande dignità, non ne era capace la tua naturale onestà, la sportività intatta dal primo giorno che entrasti nell’Inter, con Herrera che ti chiamò Cipelletti, sbagliandosi, e da allora, tutti noi ti chiamiamo Cipe. Dolce, intelligente, coraggioso, riservato, lontano da ogni reazione volgare.
Grazie ancora di aver onorato l’Inter, e con lei tutti noi.
- Massimo Moratti
domenica 3 settembre 2006
Firefox
Due cuccioli gemelli di panda minore
conosciuto anche come panda rosso o firefox.
Zoo di Chiba, Giappone.
sabato 2 settembre 2006
La grande scacchiera: la mossa del cavallo
Ha appena superato l'Arabia Saudita, le cui riserve stanno calando.
In Europa, a breve, se ne sentiranno le conseguenze.
Forse anche la Juventus avrà il suo nuovo magnate.
Putin, accerchiato da Paesi messigli alle costole dagli USA,
ha stretto accordi con Algeria, Venezuela, repubbliche ex-sovietiche dell'Asia centrale, e Iran.
Una mossa paragonata da qualcuno a quella del cavallo nel
gioco degli scacchi.
Accordi così saldi da far parlare di un Anti-OPEC.
Grande commissionaria: la CINA.
E gli scambi si fanno in EURO.
Grazie alle guerre di Bush, ha estinto in questi giorni
tutti i debiti contratti con le banche europee da Eltsin.
Avrebbe dovuto terminare nel 2015 ma all'epoca il barile di petrolio
costava 13 $, oggi 73$.
Ripagare il debito rafforzerà l'autorità internazionale della Russia come Stato22 miliardi di dollari sborsati sull'unghia.
I creditori internazionali non potranno più impicciarsi
dei fatti suoi.
Tra le europee, Germania e Norvegia non sono state a guardare.
Qualcosa ha fatto anche la Francia.
venerdì 1 settembre 2006
Io so
Io so. Ma non ho le prove.
Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale,
uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò
che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive,
di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace;
che coordina fatti anche lontani, che rimette
insieme i pezzi disorganizzati e frammentati in
un intero coerente quadro politico, che ristabilisce
la logica dove sembrano regnare
l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Pier Paolo Pasolini (Da "Cos'è questo golpe? Io so")
Corriere Della Sera, 14 novembre 1974
martedì 29 agosto 2006
Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan
Il famoso "Grande Gioco".
Prima di loro altri, passando per Tamerlano e finendo con Alessandro Magno.
Mai con esiti così disastrosi come negli ultimi due secoli.
Alla fine degli anni '70 l'intervento suicida dell'Unione Sovietica.
Infine gli USA /GB...
Consiglio la lettura di:
Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan
Jason Elliot
Un articolo di Marco Leofrigio dell'8 agosto:
Il Khyber Pass tornerà di nuovo a popolare gli incubi dei soldati di Sua Maestà? È quello che molti pensano in Gran Bretagna, ora che i britannici hanno assunto il comando della missione Isaf/Nato in Afghanistan, e che il contingente è salito a quota quattromila uomini. L’opinione pubblica teme la ricomparsa dei vecchi scheletri delle sconfitte subite durante l’era Vittoriana, inflitte dalle tribù delle impervie montagne centro-asiatiche nel corso delle precedenti guerre anglo-afgane (1839-42, 1878-1880). Anche a Maiwand, la provincia tra Kandahar ed Helmand, nel 1880 gli inglesi subirono una clamorosa disfatta. E ora questo distretto, che fa parte dell’area operativa delle forze britanniche, è una delle principali roccaforti dei Talebani, che si sono riorganizzati con formazioni da combattimento che hanno raggiunto la dimensione anche di colonne di duecento uomini e nelle scorse settimane sono passati all’offensiva conquistando, anche se per breve tempo, due villaggi nella zona di Kandahar. Gli studenti del Corano possono contare, inoltre, su solide retrovie che controllano le zone montuose del Pakistan, in particolare il Waziristan, che costituisce una base logistico-operativa indispensabile, così come lo erano per i Vietcong il Laos e la Cambogia durante il conflitto con gli Stati Uniti.
Da qualche tempo ai fedeli del Mullah Omar si è unito Gulbuddin Hekmatyar, uno degli ex-signori della guerra, prospettando una pericolosa alleanza tra elementi collegati ad al Qaeda e l’insurrezione afgana. Informazioni sulla nuova strategia dei guerriglieri provengono da uno dei comandanti del movimento, Gul Mohammed, che è stato recentemente intervistato da Asia Times Online. Mohammed venne arrestato nel 2001 ma rilasciato due anni dopo, approfittandone per riunirsi ai suoi vecchi commilitoni con oltre un migliaio di uomini. Nell’intervista ha delineato due cardini per la lotta in corso: uno militare e l’altro politico. ««Il movimento si è evoluto da guerriglia a ribellione diffusa con una base forte nel sud del paese e a nord di Kabul e il sentimento su cui fa leva è chiaramente l’ opposizione alla presenza di truppe straniere. Nella parte meridionale del paese le roccaforti sono attorno alle città di Kandahar, Qalat e Helmand e possiamo contare su stock di armi predisposte prima dell’attacco delle forze americane nel 2001». L’intensificazione della lotta risulta evidente analizzando il dato sugli attacchi kamikaze: appena cinque nel 2004, ben ventuno nel primo semestre 2006: maggio è stato il mese peggiore dal 2001 con oltre 400 persone uccise.
Ma oltre la recrudescenza dello scontro sul campo, quello che preoccupa in Occidente è la piega presa sotto l’aspetto politico. Autorevoli centri di studi strategici confermano i segnali di aumento di consenso del movimento talebano tra la popolazione afgana: fonti attendibili valutano che a Kandahar l’80% della popolazione li appoggi più o meno apertamente. La cosiddetta battaglia per i cuori e le menti si sta orientando a sfavore della coalizione occidentale, a causa di un mutamento di percezione tra la popolazione che minaccia i grandi sforzi compiuti sia da parte statunitense sia da parte Nato. Da par suo il governo di Kabul ritiene che Islamabad controlli alcuni dei gruppi di combattenti ma che non faccia nulla per bloccarli, a parte le azioni repressive di carattere propagandistico condotte nel Waziristan. In ogni caso è un fatto che nel 2004 molti soldati pakistani siano caduti in diverse imboscate dei talebani, nella parte meridionale di quella regione. Alcuni attenti osservatori della stampa inglese hanno rilevato che la modalità operativa di queste imboscate è simile a quelle subite dagli inglesi nelle precedenti guerre anglo-afgane. Ed a rendere sempre più incerto il clima vi sono notizie di aiuti in armamenti provenienti dall’Iran: lanciarazzi e mitragliatrici pesanti, secondo alcuni, transitano dalla regione iraniana del Belucistan, le cui tribù trafficano con l’oppio afgano. I talebani hanno dunque rafforzato gli attacchi nel sud, in un chiaro tentativo di indebolire l’autorità di Hamid Karzai, in occasione del trasferimento del controllo delle province meridionali dalla coalizione a guida Usa alla forza Isaf/Nato, avvenuto in via definitiva il 31 luglio scorso. Il vero obiettivo di questi attacchi è la protezione delle ricchissime coltivazioni di oppio, fiorenti in questi distretti meridionali. Proprio la mission principale degli inglesi è la lotta alla produzione dell’oppio afgano, che vede in questa zona una produzione pari al 20% del totale. È evidente che gli sforzi per consolidare l’esecutivo filo-occidentale, dovranno essere accompagnati anche dal soft power della coalizione, altrimenti anche l’Afghanistan potrebbe scivolare in un pericoloso e per nulla auspicabile scenario di tipo iracheno.
sabato 26 agosto 2006
Il dietrofront dei "soldatini"
Ma ve li ricordate, i severi e prudenti censori di oggi, nelle settimane in cui il governo della Cdl decise di schierarsi “senza se e senza ma” per la guerra preventiva americana decisa da George W. Bush? “Il tempo di fumarsi un sigaro e sarà già finita”, assicurò gagliardo Umberto Bossi. E appena le truppe americane entrarono nella capitale irachena, venne giù un diluvio di ironie, frecciate, risatine. Caduta Bagdad, scrisse il senatore azzurro Paolo Guzzanti, “resiste nel suo fortilizio di ipocrisia il ridotto delle squadre pacifiste. Quel che impressiona in questa vicenda è proprio la corazza da 8 centimetri di ipocrisia rafforzata con la menzogna. Infatti, se Giraudoux poteva annunciare con una sua famosa e surreale opera teatrale che "La guerra di Troia non si farà", il quartier generale della malafede e del ridicolo può oggi annunciare con fervida faccia di bronzo che la manifestazione per la pace si farà. Quale pace, se la pace è già scoppiata come un’arma di costruzione di massa nelle piazze di Bagdad, con curdi e sciiti e sunniti che gridavano "Viva Bush", sventolando la bandiera a stelle e strisce?” Non meno dura fu la rampogna alla sinistra di Elio Vito: “Quando trionfano, come stanno trionfando, la libertà e la democrazia, tutte le parti politiche debbono rallegrarsene”. Proprio un trionfo? Altroché. Parola del ministro della difesa Antonio Martino: “Quella anglo-americana è stata un’azione militare di grandissimo successo, rapida e con un numero di vittime assai contenuto”. Rischi? Zero, rassicurava il ministro degli interni. Titolo dell’Ansa: “Pisanu, guerra in Iraq non ha aggravato minacce”. “La sinistra, sia pure divisa fra posizioni più moderate, e posizioni dominate da un anti-americanismo arrabbiato può solo celebrare, nella prossima manifestazione (pacifista) la sua sconfitta”, scriveva “Il Giornale” berlusconiano. Di più, rincarava Sandro Bondi: “Deve fare un impietoso esame autocritico e una seria riflessione sui propri errori, pena la sua sparizione come forza credibile di fronte alla nazione”. “Ma sta zitto, filosofo da osteria!”, sbottava Claudio Martelli liquidando in un dibattito tivù un Massimo Cacciari perplesso sul fatto che la guerra fosse davvero finita. E lo stesso Pera, nelle vesti di presidente del Senato, non mancò di manifestare il suo disappunto per l’attardarsi dell’opposizione italiana nell’analisi di ciò che stava succedendo: “Sono sorpreso e talvolta anche sconcertato dalla qualità poverissima del dibattito italiano sulla guerra, mentre la politica e la diplomazia internazionale già si occupano del ‘dopo Saddam’”. “Coloro che speravano che la guerra fosse lunga per poter dare corso al loro livore antiamericano sono serviti”, gongolava Ignazio La Russa proponendo “la rottamazione delle bandiere arcobaleno”. “Un’altra opposizione avrebbe avuto il coraggio di riconoscere i meriti del nostro governo”, sospirava Renato Schifani, “purtroppo non è stato così. I fatti ci dicono che l’Ulivo è spiazzato dalle giuste strategie italiane in politica estera, e per il piano di aiuti umanitari varato dall’esecutivo in soccorso delle popolazioni liberate, che il governo saprà gestire con efficienza e incisività”. Certa che la "pax americana" fosse bella e acquisita, Isabella Bertolini gorgheggiava: “Le immagini televisive che ci mostrano la popolazione irachena in festa hanno annichilito le sinistre italiane sfatando tutte le loro previsioni disfattiste in una guerra lunga e sanguinosa”. “Le reazioni di giubilo iracheno confermano la correttezza delle posizioni del Governo mentre Francia e Germania sono con le pive nel sacco”, confermava Roberto Calderoli. “Quelle scene di gioia che stanno scorrendo davanti ai nostri occhi rendono evidente che l’intervento armato pone le premesse di un nuovo ordine mondiale”, ribadiva Francesco D’Onofrio, spiegando che “lo schianto del regime di Saddam” faceva “giustizia dei non pochi catastrofismi che abbiamo ascoltato e letto nel corso delle operazioni militari”. “Le profezie nefaste di quanti preconizzavano una guerra lunghissima con centinaia di migliaia di profughi sono state smentite”, esultava la capogruppo europeo di An Cristiana Muscardini. “Bagdad è libera e la sinistra in lutto”, diceva un comunicato leghista. “Berlusconi, senza entrare in guerra, l’ha vinta”, sintetizzava Gianfranco Rotondi.
Quanto a lui, il Cavalier che nel 1996 aveva fatto gli auguri a Prodi sperando che non avesse “a che fare con cose più grandi di lui” (“Ve l’immaginate davanti a una dichiarazione di guerra?”) si presentò a un comizio come Adriano in trionfo a Gerasa. Per cominciare, rassicurò gli italiani dubbiosi sul futuro: “Mi rallegro che la guerra sia finita e anche che sia stata rapida e abbia causato meno vittime di quanto si potesse temere”. Poi frustò “gli uomini della sinistra che speravano che le forze alleate sarebbero rimaste impantanate come in Vietnam” senza capire l’obiettivo di “realizzare un sistema democratico per garantire la libertà che è un bene che si diffonde positivamente su tutti”. Quindi rivendicò: “Il nostro filo-americanismo è stata una posizione vincente, che ha condannato i gargarismi antimilitaristi”. L’anno dopo, mentre arrivavano notizie quotidiane sempre più sconvolgenti, insisteva: “Qualcuno da noi parla di un ovattato clima antiamericano, ma io non ci credo. Le elezioni regolari saranno la conseguenza di uno Stato ben funzionante. Ormai in Iraq c’è una vita regolare, ci sono le scuole eccetera. Poi, certo, ci sono le cose che non funzionano: ad esempio, i semafori a Bagdad non funzionano...” Cosa sia successo poi è sotto gli occhi di tutti.
“Io non sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per arrivare a rendere democratico un paese
e a farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa”.
“Io - ha detto ancora il premier, a pochi giorni dall’inchiesta di Repubblica sulle responsabilità del governo italiano nella costruzione
di prove false sulle armi irachene - ho tentato a più riprese di convincere il presidente americano a non fare la guerra (…).
Ho tentato di trovare altre vie e altre soluzioni, anche attraverso un’attività congiunta con il leader africano Gheddafi.
Non ci siamo riusciti e c’è stata l’operazione militare (…).
Io ritenevo che si sarebbe dovuta evitare un’azione militare”
Silvio Berlusconi, in un'intervista a La7
31 ottobre 2005
Il giornalista Bruno Vespa cita a testimonianza di quanto afferma Berlusconi il proprio libro, Il Cavaliere e il Professore:
“Ho sempre temuto l’impresa militare in Iraq. In due successivi colloqui con il presidente Bush ho espresso queste riserve, cercando di convincerlo a non intraprendere l’azione militare.
Gli avevo anche suggerito di subordinarla a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.
Balle Spaziali ... le definirà qualcuno.
mercoledì 16 agosto 2006
Persepolis
(uBC)
sabato 12 agosto 2006
Perché studiare matematica e latino
Abbandonare lo studio del latino a partire dalla media è stato un errore.
Ancora più grave il fatto che si è destrutturato l'insegnamento concisamente, abbandonando anche i due potenti strumenti dell'analisi grammaticale e logica che accompagnavano il latino.
Oggi, la matematica è restata sola a fare il ruolo della cattiva e della selezionatrice.
La conseguenza è odio per la matematica e incapacità di incanalare il pensiero su vie razionali.
Lo studio del Latino contribuisce allo sviluppo delle capacità astrattive della prima adolescenza.
La consecutio, i verbi irregolari, le proporzioni matematiche...
affinano l'abilità di manipolare concetti diversi tra loro.
Le altre discipline, invece, sono soprattutto descrittive.
A questo indirizzo è possibile scaricare un Saggio in materia di due ricercatrici dell'Università di Trieste.
Formato PDF, 201 Kb
domenica 30 luglio 2006
Le due facce di una moneta
Vincitori e vinti.
Padroni e servi.
Giocatori e pedine.
Impresari e comparse.
L'America e l'altra America.
A volte capita che una moneta, lanciata in aria, resti in equilibrio sul bordo.
Ai servi, crudelmente, si lascia l'illusione del comando.
Truffe, finzioni, menzogne.
Ed i figli di questi ad alimentarsi dell'inganno finché un refolo di vento o un piede ormai stanco non rimette le cose al loro posto.
A meno che il nuovo padrone non sia il figlio del vecchio servo.
Ed il gioco continua. Stavolta muove per primo il nero...
domenica 23 luglio 2006
Fat City
Pubblicato nel '69 e diventato film nel '72, è tra i classici della letteratura americana.
Gardner in seguito ha scritto molte sceneggiature per la TV, tra cui NYPD Blue.
"Fat City" (città grassa) è un'espressione gergale tipica del mondo del jazz e della boxe.
E' usata per indicare il "paradiso in terra", dunque l'inaccessibile.
Il romanzo è ambientato nella cittadina di Stockton, in California, e racconta i combattimenti, le ambizioni e le amarezze dei pugili dilettanti alla ricerca di un posto al sole nel grande circuito della boxe professionistica.
venerdì 3 marzo 2006
Influenza Aviare: controinformazione
considerati a "rischio" quando invece sono gli unici a garantire carni sane per i consumatori.
Ma queste cose non vengono dette."
"A questo disastro si sono aggiunti, in questi ultimi giorni, i commenti della RAI che individuano
gli allevamenti rurali come i più a rischio di Influenza Aviare.
Si stanno umiliando migliaia di agricoltori che ancora credono nel lavoro della terra.
In pratica i prodotti avicoli d'eccellenza allevati all'aperto con metodi antichi, sarebbero un pericolo per i consumatori.
Produzioni tradizionali come il Brianzolo in Lombardia, il Perniciato in Emilia, la Valdarnese in Toscana,
la Padovana e la Polverara in Veneto, la Bianca di Saluzzo in Piemonte, il Gigante nero in Liguria, la Siciliana in Sicilia e
le altre decine di produzioni di elevata qualità sono di colpo denigrate ."
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Si parla della storia del virus, delle caratteristiche degli allevamenti intensivi e della 'robustezza' di quelli estensivi.
Un pollo ruspante non peserà come quelli allevati in spazi ristretti ma sarà certamente più buono e più forte
contro le malattie.
Le persone che non l'hanno mai assaggiato prima fanno davvero fatica a credere al proprio palato.
Uno tra i tanti esempi di sciocchezze: costringere i contadini ad utilizzare delle reti di protezione dagli uccelli.
Questi le utilizzano come posatoi e, quindi, per defecare.
Iran. Quale futuro?
Altre cartine geografiche: 1, 2
Iran. Quale futuro?
A 28 anni dalla rivoluzione, la Repubblica Islamica affronta il momento più critico della propria storia.
E’ in corso il passaggio di potere tra i vecchi clerici settantenni e la seconda generazione di rivoluzionari.
Contemporaneamente, i rapporti con gli USA, a causa del controverso programma nucleare, non sono mai stati peggiori.
Il potere reale attuale deve la propria legittimità alla cacciata dello Shah, nel 1978.
Tuttavia, quello instaurato dall’ayatollah Khomeini è un regno spirituale ormai stanco.
E’ quanto pensa Mahan Abedin, un americano di origine iraniana che lavora per la Jameston Foundation, certamente tra i massimi esperti del regime persiano.
domenica 26 febbraio 2006
Orson Welles, gli orologi a cucù e Google.
"The Third Man" di Graham Greene
Tutto ciò nel 1949, con Welles nel ruolo di Harry Lime. Davanti alla telecamera, in veste di attore.
Questa fu l'unica frase dell'intero film non scritta dal regista.
Welles volle inserirla a tutti i costi, contro la volontà di Greene.
Come forse non tutti sanno, l'orologio a cucù è stata un'innovazione sviluppata da artigiani della Foresta Nera, in Germania, tra il 1740 ed il 1750.
Ancora oggi il centro della produzione continua ad essere l'area di Triberg im Schwarzwald e Neustadt, con un centinaio di fabbriche che realizzano l'intero orologio o soltanto parti di esso.
L'orologio a cucù viene erroneamente associato alla Svizzera, come accade nel film "Il Terzo Uomo". Negli USA questo probabilmente è dovuto ad una storia di Mark Twain in cui Lucerna viene descritta come la patria di tale invenzione.
Qualche settimana fa, in un forum, partecipavo ad una discussione avente come soggetto proprio la nazione elvetica.
Il solito provocatore di turno pensò bene di documentarsi velocemente su Google e se ne uscì, tronfio, con la citazione sopra riportata.
Era in italiano e veniva attribuita a Citizen Kane (Quarto Potere).
Caso vuole, infatti, che il motore ormai utilizzato da tutti fornisca come risultato della ricerca in lingua italiana questo grossolano errore.