“Era un grande. Per me Sergio Bonelli era un mito. Io ho conosciuto Tex a quattro anni, quando ancora non sapevo leggere e l’albo a striscia costava solo 20 lire! Poter conoscere Sergio è stata una grande fortuna”.
Sergio Cofferati, eurodeputato del Pd, è un grande appassionato di fumetti. La sua passione è diventata pubblica quando è diventato segretario della Cgil. Cofferati ha un ricordo di Bonelli che conserva gelosamente: “Nel 1994, quando ero stato eletto segretario della Cgil, avevo fatto un’intervista in cui raccontavo la mia lunga storia… d’amore con Tex. Bonelli e Claudio Villa, uno dei migliori disegnatori della serie, l’uomo che ha preso il posto di Galleppini nell’illustrare le copertine di tutti gli albi, architettarono questo regalo: un disegno con il ranger più famoso del fumetto italiano mi stringeva la mano per farmi gli auguri”.
Che tipo era Bonelli?
Un intellettuale puro. Un uomo molto colto, schivo, privo di qualsiasi vanità. Ma pieno di curiosità e di passioni. In questo paese, il fumetto è stato considerato per lungo tempo, e ingiustamente, un genere di serie B. È merito del suo lavoro se ha conquistato due successi: il favore del mercato e il riconoscimento della critica.
Quale è stato il suo contributo?
Ne ha fatto un grande romanzo popolare.
Quando è stato il primo incontro?
Tredici anni fa, per i cinquant’anni di Tex. Parlammo a lungo, mi raccontò i retroscena del mondo che io frequentavo da lettore appassionato.
E l’ultimo?
Ero andato a trovarlo a casa sua, sopra la casa editrice, ricolma di cimeli, poster, locandine, albi introvabili. Era come entrare in una disneyland del fumetto: il primo istinto era rubare qualcosa, eh eh...
E lui?
Doveva averlo capito, perché ridendo mi disse: ‘Le mani a posto, mi raccomando!’.
Ti stai raccontando come un fan, ma tu sei anche un critico del fumetto, hai scritto persino dei piccoli saggi.
Sono solo un ex bambino che ha contratto la passione in tenera età ed è cresciuto dentro l’universo bonelliano.
Ovvero?
Ero partito dal western di Tex: il luogo della semplicità. Ci sono i buoni, i cattivi, i disegni in bianco e nero: il bene e il male, il perfido Mefisto.
E poi?
La Bonelli sapeva crescere con i suoi lettori. Nel 1977, per esempio, era arrivato Ken Parker.
Il capolavoro di Berardi e Milazzo: il western colto, problematico, progressista.
E tu li apprezzi entrambi?
Tex è l’uomo che non si fa domande. Ken Parker è l’uomo che si fa tutte le domande. Non si può fare a meno di nessuno dei due.
Sapeva di questa tua storia, Bonelli?
Un giorno gli chiesi: ‘Quanto rende Ken Parker?’. Mi disse: ‘Sai ci sono mesi in cui non si coprono i costi. Ma è così bello che se dovessi svenarmi per pubblicarlo, lo farei lo stesso’. Questo ci permette di raccontare un’altra cosa di lui.
Ovvero?
Il modo in cui ha fatto l’editore. Bonelli era un intellettuale che aveva un’idea illuminata del mercato. Con i successi commerciali si finanziavano i fumetti di pregio. Con le centinaia di migliaia di copie di Dylan Dog si pagavano le sperimentazioni innovative, da Magico Vento a Napoleone. E poi il mondo del fumetto sapeva che la Bonelli era una casa aperta per tutti.
Esempio?
Il Texone di Magnus. Il fatto che Bonelli abbia atteso sette anni per pubblicare l’ultimo lavoro di Magnus era un esempio del suo… mecenatismo. Ci fossero nell’editoria amministratori capaci di questa intelligenza!
Ma quindi tu non leggi solo Tex?
Ho frequentato tutte le possibilità che la Bonelli ha esplorato. Il western fantastico di Zagor, il genere avventuroso di Mister No… ma anche la fantascienza di Nathan Never e il giallo sofisticato di Julia, che amo molto.
Da anni ti insegue la domanda sugli eroi bonelliani: se siano di destra o di sinistra.
Il prossimo che me la fa lo strozzo. Non c’era e non c’è la politica, nei fumetti di Bonelli, perché – giustamente – quegli eroi devono parlare a tutti. Tutti gli eroi di Bonelli hanno un sentimento di fondo civile e – oserei dire – progressista. Son tutti, a loro modo, in lotta contro il conformismo e contro il pregiudizio. Sono anticonvenzionali e anticonservatori.
Che cosa resta del lavoro di Sergio Bonelli?
La qualità come modello e come standard. E una meravigliosa scuola di penne e pennelli. Penso a sceneggiatori come Boselli, Nizzi, ai tre geniacci di Nathan Never – Medda, Serra & Vigna – o a scrittori come Manfredi, che sono stati portati nel mondo del fumetto dalla sua capacità imprenditoriale.
di Luca Telese, per Il Fatto Quotidiano
«Il fumetto — diceva Bonelli — sembra una robetta popolare, ma invece è una cosa complicata, importante, non facile da leggere se non lo si fa con applicazione e passione. Una pagina di fumetto ha una struttura piuttosto raffinata, bisogna avere voglia di capirla, mettere in relazione parole e disegni, trama e azione».
Sergio Bonelli è stato uno di quegli italiani per i quali “popolare” e “importante” erano sinonimi. E basterebbe questo per ricordarlo con gratitudine e rimpianto, in un’epoca che ha scelleratamente separato i due concetti, sposando volentieri il popolare al dozzinale.
Ha gestito il suo piccolo impero di carta con una dedizione formidabile, sentendosi addosso la responsabilità dell’imprenditore verso i suoi dipendenti, dell’impresario verso i suoi artisti e dell’editore verso il suo pubblico. Pur non essendo, di formazione, un intellettuale (era un milanese “di ringhiera”, pragmatico, laborioso), lo è diventato sul campo ragionando sul difficile passaggio d’epoca del genere avventuroso e dei suoi eroi, sui gusti del pubblico, sui meccanismi della società di massa. Aveva rilevato Tex dal padre di entrambi (Gianluigi Bonelli, creatore del cow-boy e papà di Sergio), ne è diventato lo sceneggiatore e l’editore conservandone la scorza virile ma aprendo via via il western di carta, come nel cinema, ai temi sociali, all’ironia, a una visione più sfumata e moderna dell’intramontabile conflitto tra Buoni e Cattivi.
Più tardi, lanciando Dylan Dog di Tiziano Sclavi (un meritatissimo trionfo editoriale), aveva scommesso sulla capacità del pubblico di decifrare trame raffinate, atmosfere nevrotiche, un vero e proprio rilancio e al tempo stesso un salto di qualità del fumetto avventuroso.
Incalzato dai tempi (la playstation era il suo incubo), ha difeso il fumetto popolare negli anni della sua massima crisi (televisione e computer invadono tutto il tempo libero delle nuove leve) cercando di alzare sempre la qualità. Era un uomo intelligente, onesto, carico di curiosità e con un tratto di insicurezza (ostentata) che lo rendeva amabile e spiritoso. Dell’uomo di successo e del benestante non aveva mai acquisito la presunzione, si portava in pubblico e in privato con una modestia spontanea, esemplare.
All’energia di un ragazzo del dopoguerra aveva sommato l’irrequietezza, la crisi di crescita, le domande forti di un adulto degli anni Sessanta e Settanta. Parlare con Bonelli era affascinante perché in lui convivevano l’energia laboriosa del pragmatico e il dubbio creativo dell’artista. Tex ha perduto suo fratello, Milano un cittadino importante, la cultura popolare italiana uno ingegnosi e intellettualmente probi.
di Michele Serra per La Repubblica
Sembrava burbero,ma amava il contatto con i lettori, che ha frequentato fino all’ultimo. A fine luglio era alla fiera di Rimini, e c’è chi giura di averlo visto commuoversi ascoltando una ragazza cantare «Body and Soul», un testo che parla di lacrime e tristezza. «Mi fa sempre piacere sentirla, è la canzone preferita da Mister No».
Nessun commento:
Posta un commento