L'altro giorno scrivevo dei "Padan cocks", gente pittoresca abitante di un luogo che non c'è. Ieri Carlo Vulpio, su Il Corriere Della Sera, ha incontrato Andoni Goikoetxea Olaskoaga, ex calciatore difensore dell'Athletic Club di Bilbao, diventato famoso per un durissimo intervento (video) su D. A. Maradona nel settembre del 1983.
Un'intervista che ho trovato bellissima, una pagina da strappare e conservare.
Si comincia con una citazione: "I popoli liberi sono i soli che abbiano una storia; gli altri hanno solo delle cronache: sono materia per l’erudito e il genere umano non li conosce" (Edgar Quinet). Poi si accenna ad un libro.
«Dio creò solo una squadra perfetta. Le altre le riempì di stranieri». Questo detto popolare, che fa da epigrafe a un capitolo del libro «L’utopia calcistica dell’Athletic Bilbao», scritto da Simone Bertelegni (BradipoLibri, pp. 210, € 16), rende bene l’idea di un’esperienza unica al tempo del calcio globalizzato.Quella dei baschi dell’Athletic Club Bilbao, squadra autarchica, otto volte campione di Spagna, ma gelosa del nome originario, in inglese, che invano il franchismo cercò di mutare in Atlético de Bilbao. Il libro è una miniera di dati, nomi, storie di un calcio «altro», che si ostina a sopravvivere alla perdita di identità del calcio di tutti gli «altri»Per il "Times" è diventato il calciatore più cattivo della storia del calcio, "il macellaio di Bilbao". «Non sono cattivo, Maradona lo sa», racconta oggi Andoni. Per quel fallo "di frustrazione" (perdevano 4 a zero e non gli era stato fischiato un intervento scorretto appena subito) non fu neppure espulso.
«Yo soy un duro, no un malo» («Sono un duro, non uno cattivo») , dice Goikoetxea, come se parlasse a nome del suo Popolo, l'Euskal Herria (I Paesi Baschi). Il termine Euskal Herria indica sia il luogo geografico abitato che l'insieme stesso dei Baschi. Questi, infatti, sono sempre rimasti uniti grazie alla propria cultura (principalmente la loro lingua) e quasi mai territorialmente, quindi un Basco è principalmente una persona che parla l'idioma basco (e perciò è chiamato Euskaldun, cioè colui che parla il basco) prima di essere una persona che vive nel territorio del Paese basco.
Andoni e Diego, dopo quella volta, si sono rivisti, si sono parlati e persino abbracciati. «Da noi si dice che ciò che succede a Las Vegas resta a Las Vegas — spiega Goikoetxea —, per dire che ciò che accade in campo finisce lì, in campo».
Una norma non scritta, ma chiara, semplice, fondamentale per chi concepisce il calcio e la vita «secondo la filosofia dell’Athletic». Che è una filosofia politica unica, perché «molto basca», basata sull’orgoglio di combattenti che hanno sempre odiato il Franchismo e che ancora oggi venerano come loro simbolo più importante l’Albero della Libertà di Guernica (Gernika, in basco), la prima città ad aver subìto, il 26 aprile 1937, un bombardamento sulla popolazione civile. Una filosofia cresciuta sull’idea di democrazia che è propria delle Repubbliche costituzionali occidentali e vissuta attraverso un attaccamento alla terra e alla lingua — non romanza, di misteriosa origine pre-indoeuropea —, che sul piano calcistico si traduce in una squadra autarchica, in cui possono giocare solo i baschi, ma che tuttavia non trascende mai nella xenofobia e anzi è aperta a tutti.
Questa filosofia, questa affermazione perentoria della propria identità è ciò che fa la differenza. Ed è la stessa per tutti. Per Goikoetxea per i ragazzi formatisi nella «fabbrica» di Lezama, il centro sportivo dell’Athletic Bilbao, in cui non c’è «differenza di classe» tra campioni affermati e giovani promesse.
Per i tifosi, considerati un pubblico tra i più sportivi d’Europa, che va allo stadio San Mamès come se andasse in chiesa (e infatti qui per Catedràl si intende lo stadio, non quella intitolata a Santiago, nel borgo antico), e per i trentamila soci (un socio, un voto) che ogni quattro anni eleggono il presidente e la giunta direttiva del Club.
«Siamo un unicum nel mondo», dice con orgoglio Goikoetxea. E dice «siamo», perché chi ha giocato nell’Athletic Bilbao resta per sempre dell’Athletic Bilbao, anche se cambia squadra, come Goikoetxea, che ha chiuso la carriera con l’Atletico Madrid.
La filosofia politica basca applicata al calcio, tuttavia, non bastò a evitare, dopo quel fallo su Maradona, che per la finale di Coppa del Re, a Barcellona, sugli spalti del Camp Nou, ad aspettare Goikoetxea si facessero trovare in centomila. Erano lì tutti per lui. Appena toccava palla lo subissavano di fischi e male parole. Non era Barcellona-Athletic Bilbao, era Camp Nou contro Goikoetxea.
C’erano due possibilità, racconta Andoni, «o farsela addosso, o far finta di non sentire e combattere ». Lui, ovvio, sceglie la parte del Gladiatore che è, e la Fortuna, come avviene in tutte le storie fantastiche, gli arride. Segna proprio lui, di testa, e i centomila ammutoliscono. L’Athletic Bilbao vince e Goikoetxea prova una cosa sola: «Un orgasmo».
Non per il gol in sé. E nemmeno per aver sconfitto i catalani. «Ma per aver saputo ruggire come un leone (e Leoni vengono chiamati giocatori e tifosi dell’Athletic, ndr) nel momento di maggiore difficoltà».
Nella «geopolitica calcistica» basca però, comportarsi «da leone» non vuol dire soltanto ruggire. Ma anche saper mantenere la «cabeza fria», la mente fredda, quando si deve centrare un obiettivo essenziale, che può persino andare al di là di ciò che comunemente si intende per «lealtà sportiva». Come accadde, per esempio, nel 1982, quando i baschi della Real Sociedad di San Sebastian (Donostia, in basco) vinsero il campionato grazie alla «collaborazione » dei baschi dell’Athletic, che incontrarono nell’ultima gara del torneo. Favore ricambiato due anni dopo, sempre all’ultima giornata, con la Real Sociedad che si fa sconfiggere e l’Athletic che diventa campione di Spagna per l’ottava (e ultima) volta.
Quelle due partite Goikoetxea le ha giocate, e anche da capitano. Nella prima, con la Real Sociedad in vantaggio di due gol, Manuel Sarabia segna per l’Athletic. Imbarazzo generale tra i bilbaini e Goikoetxea che chiama «Manolo» e gli sussurra qualcosa all’orecchio. «Gli ho detto solo di farsi coraggio», dice ridendo Goikoetxea. O forse, com’è più probabile, di non farlo più. In ogni caso, la partita finisce in quel momento. Nella seconda gara, a parti invertite, è quasi commovente vedere i giocatori della Real Sociedad non festeggiare un gol del loro compagno Urialde e il portiere Arkonada rinviare a ripetizione la palla sui piedi degli avversari dell’Athletic, che infatti alla fine vincono la partita e il titolo.
Goikoetxea se la ride ancora una volta: «Ah, sì? È successo tutto questo?». Poi si fa serio. «Da noi, anche nel calcio, c’è un sapore politico permanente — dice —. Non c’entrano i partiti, ma il fatto che noi non siamo soltanto una squadra di calcio. Siamo uno straordinario veicolo di identità nazionale e soprattutto l’orgoglio di un territorio e di un popolo».
Andoni, e se viene a saperlo «The Times»? «Meglio di no. Altrimenti perdo il primato in classifica... In fondo, se il Macellaio di Bilbao può essere utile all’Athletic e a Euskal Herria, bisogna ringraziare "The Times"».
Un confronto, quello con i "cazzoni padani", impietoso.
I muri li fai per dividere cose uguali.
RispondiEliminaIn fondo due cose diverse non si separano già da sè?
La Lega ha bisogno di cercarsi una identità, anche se si chiama razzismo.
Se le levi quello cosa resta? Le ronde?
Siamo disabituati a pensare alla politica come un moto umano, come qualcosa che prescinde dalla croce su un pezzo di carta che dovrebbe essere la fine e non l'inizio.
A parte qualche curva ancora politicizzata negli stadi noi lanciamo motorini dagli anelli.
I motorini dagli anelli ed il neurone oltre l'ostacolo. Ricordi?
RispondiElimina