sabato 25 febbraio 2012

Linsanity


Negli Stati Uniti la notte del 4 febbraio è esploso il fenomeno Jeremy Lin, giocatore di basket dei New York Nicks, il primo di origini cinesi nato negli USA. In tre settimane il suo nome è arrivato sulla bocca di tutti, fino alla copertina del TIME. Risollevando le sorti sportive della sua squadra, ha attirato nuovi telespettatori, appassionati, commentatori. Tutto questo non poteva accadere in un momento migliore, visto l'interesse - e gli interessi - nel prossimo futuro degli Americani per il mondo asiatico (ne ho già scritto QUI e QUI).
Un marchio commerciale vero e proprio che sarà opportunamente sfruttato, anche dallo stesso Lin. Non mancano gli spunti razzisti, neanche lì, ma con esiti molto diversi rispetto a quanto avviene in Italia. Perfino in Cina in molti fanno dei distinguo per il fatto che il padre provenga da Taiwan.
Riporto due diversi articoli che, a distanza di undici giorni, dovrebbero rendere l'idea di quel che succede oltre oceano.


Lin, il cinese di Harvard apre la terza era Nba
Da sconosciuto a leader: «È un sogno»
di Flavio Vanetti

L’ultima zampata? L’altra sera a Minneapolis: 20 punti e canestro della vittoria—la quinta di fila — contro i Timberwolves guidati da un altro ragazzotto dalla faccia tosta, lo spagnolo Ricky Rubio. La storia di Jeremy Lin, il playmaker «signor nessuno» ma laureato ad Harvard, che in una settimana è diventato, nell’ordine, lo sportivo del momento su scala planetaria, il redentore dei New York Knicks e il miglior collante per la traballante panchina di Mike D’Antoni, contiene in realtà una morale che esula dagli immediati risvolti cestistici. La questione, infatti, ha ormai contorni di impatto sociale (le Chinatown cinesi negli Usa sono impazzite), di comunicazione secondo lo stile del terzo millennio (Lin è diventato un eroe dei social network), di marketing (provate a vedere se trovate ancora, e a che prezzo, una maglia numero 17 dei Knicks...). Ed è, soprattutto, la prova che la Nba è entrata nella terza epoca della sua storia: se la prima è stata quella dell’autarchia (di pelle bianca o nera,ma giocatori statunitensi al 100%), se nella seconda — avviata un quarto di secolo fa—si è assistito al progressivo afflusso di cestisti del resto del mondo, la terza era è quella nella quale un giocatore è sì statunitense ma è pure figlio del «melting pot». Il padre di Jeremy emigrò da Taiwan e Lin è così diventato il primo cinese nella Nba a essere nato sul suolo Usa.
Doveva succedere, prima o poi. Ed è un colpo ancora più grande, per la lega professionistica, aver trovato un nuovo personaggio in grado di veicolare il suo messaggio al pubblico asiatico e a un continente giudicato strategico: dopo il ritiro di Yao Ming serviva un nuovo campione che sapesse stregare quei mercati. La sorte ha voluto che il suo uomo fosse un ventitreenne uscito da un’università non di eccelse tradizioni cestistiche, ma, di certo, una delle più famose e costose. Lo stesso ateneo, per intenderci, di 7 presidenti, di 40 vincitori del Nobel e dei guru dell’informatica Bill Gates eMark Zuckerberg.
Il bello è che dopo appena una settimana di magie e di prodezze (26,8 punti dimedia, 38 come massimo contro i Lakers), non si esita ad accostare Jeremy Lin a tutta quella razza di nomi.
Esagerazione? Vilipendio dell’«almamater» di Cambridge (area metropolitana di Boston) che ha per motto «Veritas»? Sì e no.
È chiaro che le iperboli giornalistiche adesso hanno buon gioco: si parla di «Lin-mania», di «Lin-sanity» (follia), di «New York Lin», di «Mamba giallo» da contrapporre al «Mamba nero», cioè Kobe Bryant. Ma la risposta è anche no, perché quanto sta capitando a Lin è una delle cose più entusiasmanti mai registrate nello sport. Jeremy sta vivendo la gloria, anzi, «il sogno più bello della mia vita», dopo l’anonimato. Anche le università della natia California, in fondo, l’avevano snobbato; la scelta di Harvard derivò da qui, nonostante il ragazzo l’abbia poi legittimata con un videoclip autoprodotto (Le cinque cose necessarie per finire ad Harvard) che danno la misura di quanto sia ironico e simpatico.
Nemmeno la carriera «pro» aveva buttato bene: rilasciato da San Francisco e Houston, durante la serrata era stato offerto a Teramo e a Varese. Ma lui chiedeva la clausola di uscita, nel caso la Nba fosse partita: ecco perché non l’abbiamo visto in Europa. New York l’aveva parcheggiato in fondo alla panchina: per sostenere la regia i Knicks hanno puntato su Baron Davis. Ma quando il «Barone» si è fatto male, seguito da Stoudemire e Anthony, l’arrancante D’Antoni ha buttato Lin nella mischia. E il gruppo, da perdente è diventato invincibile.
La verità—non a caso il motto di Harvard — è che a basket non si vince con le stelle, bensì con le squadre. Jeremy Lin ne ha scovata una, la sua. E la sta guidando. Non sarà Cenerentola, non tornerà ad attività marginali e reiette: pure questo è un dettaglio maledettamente affascinante della sua folle esplosione. (Il Corriere Della Sera, 13 febbraio 2012)



IL CESTO DEL RAZZISMO
Quei commenti sulle origini asiatiche della stella del basket relegata per anni in panchina

di Hadley Freeman
Tra i tanti interrogativi sull’incredibile successo di Jeremy Lin, play dei Knicks di New York, diventato sin dall’esordio nel quintetto di Mike D’Antoni uno dei più famosi sportivi d’America dopo aver vivacchiato in panchina per anni, uno non è stato ancora posto: che rapporto c’è tra Lin e Mickey Rooney di Colazione da Tiffany ? Il film viene ricordato per lo più per la grazia di Audrey Hepburn, ma il personaggio che dà sapore alla trama è quello del signor Yunioshi, vicino di casa di Audrey, che si esprime in uno stentato inglese.
E QUESTO ci riporta a Lin, il giocatore di basket della NBA di origine asiatica. Figlio di immigrati di Taiwan, 23 anni, americano di prima generazione, laureato ad Harvard, Lin incarna in campo sportivo il sogno americano.
Fino al 4 febbraio pochissimi conoscevano il suo nome, ma dopo la partita contro i New Jersey Jets, nella quale mise a segno 25 punti, e le successive strabilianti prestazioni, è dilagata non solo a New York, ma su tutta la stampa americana la “Linsanity”, la Lin-mania, al punto che Lin – memore della laurea in Economia ad Harvard – ha presentato all’Ufficio Marchi e Brevetti la richiesta di registrazione del marchio per il suo sfruttamento commerciale.
Già in passato ci sono stati campioni di prima grandezza di origine asiatica; basti pensare alla pattinatrice Michelle Kwan e all’incontrastato dominatore del golf Tiger Woods. Ci sono anche stati giocatori asiatici nella NBA come il cinese Yao Ming, appena ritiratosi. Ma Lin è il primo cittadino americano di origine cinese o taiwanese che gioca nella NBA e per molti non deve essere stato facile mandare giù questo boccone. Non che ci si debba aspettare una particolare sensibilità da parte di atleti professionisti o dei media sportivi, ma il razzismo nei confronti di Lin ha fatto capolino da molti servizi televisivi e articoli di giornale.
“Una crepa nella corazza” (“Chink” significa crepa e indica anche spregiativamente i cinesi, ndt) è stato il titolo di un servizio della ESPN – Entertainment & Sports ProgramminNetwork – a cura di Anthony Federico in occasione della sconfitta dei Knicks, la settimana scorsa, dopo otto vittorie consecutive. L’espressione è stata inoltre ripetutamente usata dal telecronista Max Bretos.
Federico è stato licenziato e Bretos è stato sospeso per 30 giorni. Questi due sembrano due gentiluomini inglesi di fine Ottocento se li paragoniamo a Jason Whitlock di Foxsports.com che ha così commentato la straordinaria partita giocata da Lin venerdì scorso contro i Lakers, sconfitti dalla sua classe: “Stanotte a New York una fortunata avrà in sorte qualcosa come 5 centimetri di dolore”. È chiara l’allusione alle misure che si favoleggiano modeste del pene degli orientali e il commento misogino oltre che razzista.
Quando il Madison Square Garden Network ha mostrato una foto di Lin, in sovrimpressione appariva l’immagine di un “biscotto della fortuna”, un particolare tipo di biscotto che nella tradizione cinese nasconde al suo interno un bigliettino con un saggio consiglio. A quando i bastoncini?
Il peso welter Floyd Mayweather non è mai stato un Monsignor della Casa, ma con il Tweet su Lin si è superato: “Jeremy Lin è un buon giocatore ma non capisco tutta questa grancassa solo perché è asiatico. I giocatori neri fanno le stesse cose tutte le sere e non si mobilitano tutti i giornali d’America”. C’è poi la solita corsa a chi la spara più grossa. Il periodico The Atlantic, forse per ingraziarsi i cinesi, se n’è uscito con una teoria affascinante: Lin deve il suo successo alla sua “eredità filosofica”.
NEL MONDO dello sport il razzismo non è una novità. Ma il successo di Lin ha evidenziato un problema di natura diversa, quello del razzismo nei confronti degli americani di origine asiatica.
Nessuno è così ingenuo da pensare che in America non esista più il razzismo contro i neri, ma gli epiteti usati contro Lin sarebbero impensabili nei confronti di un giocatore nero. Per qualche strana ragione il razzismo contro gli asiatici sembra ai più meno grave e più accettabile.
In un articolo pubblicato l’anno scorso dal magazine del New York Times, Wesley Yang scrisse che essere americani di origine asiatica significa non solo far parte di una “massa indistinta di persone brave in matematica e nel suonare il volino, ma anche di una massa di persone vittimizzate, represse, maltrattate, che contano nulla sia socialmente che culturalmente”.
Al cinema gli asiatici sono soltanto contadini, esperti di arti marziali o gestori di negozietti malfamati. Ma torniamo alla domanda iniziale e diamo la risposta: sia Mickey Rooney che Jeremy Lin mettono a nudo un lato dell’America che si desidera nascondere.
La differenza va individuata nel fatto che Rooney incoraggiava questi stereotipi mentre Lin li ribalta.
© The Guardian; traduzione, per Il Fatto Quotidiano (24 febbraio 2012), di Carlo Antonio Biscotto

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