domenica 4 marzo 2012

"Quattro consigli per salvare l'euro"

di Alberto Alesina

È stata un fallimento la moneta unica? Oppure le difficoltà dell’euro sono passeggere e l’unione monetaria rimane un’ottima idea?
Per dare risposte intelligenti a queste domande la prima cosa da fare è evitare gli slogan: ne abbiamo sentiti tanti fin dalla nascita dell’euro. Prima di tutto i proclami di quegli europeisti ingenui e irritanti secondo cui qualunque passo verso più integrazione in Europa, con più Paesi possibile, era sempre e comunque una meraviglia. Dall’unificazione dei regolamenti sulla pesca all’agenda di Lisbona, alla moneta unica, alla Costituzione europea con centinaia di articoli dettagliatissimi cui 27 o più Paesi dovevano tutti aderire.
GRAN PARTE DI TUTTO CIÒ (a cominciare dalla fallita Costituzione europea) era solo retorica, quasi innocua, a parte per la perdita di tempo. L’euro, invece, è ben più di retorica. Secondo questa logica, l’euro aveva quindi soprattutto un significato politico e rappresentava un passo necessario verso gli Stati Uniti d’Europa.
Le considerazioni economiche erano giudicate secondarie tanto che questo atteggiamento ha portato a sorvolare su aspetti importanti.
Degli slogan si è abusato anche sul fronte opposto. Per esempio, quando si dice che tutti i mali dell’Italia, dal prezzo del caffè nei bar, alla crescita asfittica, alla disoccupazione giovanile, all’immigrazione clandestina, sarebbero colpa dell’euro, fonte massima di tutti i mali.
Non sarebbe colpa di questo o quel governo o di sindacati conservatori, di imprenditori che non innovano, di evasori incalliti, di lobby potenti. No, se le cose in Italia vanno male, è tutta colpa dell’euro: se solo avessimo la nostra vecchia lira da svalutare saremmo in paradiso.

Parliamo seriamente. La moneta unica ha dei vantaggi e degli svantaggi. Per funzionare richiede politiche adeguate e una certa uniformità delle economie dei Paesi membri. Le difficoltà di oggi derivano dall’aver ammesso nell’Euro-area Paesi che sarebbero dovuti rimanere fuori, in primis la Grecia, ma anche il Portogallo. E poi dall’aver sottovalutato la posizione fiscale, difficile fin dall’inizio, di un Paese come l’Italia. Forse ci avrebbero dovuto far “sudare”, fiscalmente parlando, molto di più prima di ammetterci.
Ma le decisioni su chi includere nell’euroclub furono basate più sulla politica che sulla logica dell’economia.
MA ANDIAMO CON ORDINE. Quali sono i costi e i benefici della moneta unica? I benefici derivano dal facilitare gli scambi commerciali e costruire un mercato comune molto grande per dare spazio alle esportazioni dei Paesi membri. Si obietterà che un mercato unico senza barriere doganali non richiede necessariamente una moneta unica. Ma di sicuro quest’ultima elimina costi di transazione, di protezione finanziaria contro l’instabilità dei cambi. Il secondo beneficio deriva dalla stabilizzazione a livelli bassi del tasso d’inflazione. Paesi come l’Italia non riuscivano a fermare il tasso di crescita dei prezzi. Ricordiamoci che livelli d’inflazione di più del 10 per cento in Italia erano la norma. Paesi a moneta debole si sono ancorati a un tasso d’inflazione che ha fermato la spirale prezzi-salari. Terzo, si è evitato il rischio di svalutazioni competitive tra un Paese e l’altro, una specie di guerra delle monete con effetti nulli nell’aggregato ma con un effetto inflazionistico per tutti.
Quarto, e collegato ai punti precedenti, il crollo dei tassi ha ridotto gli oneri per interessi sul debito. Poiché il rischio di cambio è sparito con la moneta unica, nel primo decennio di vita dell’euro i tassi di interesse sul nostro debito sono scesi quasi ai livelli di quelli tedeschi; pertanto, sebbene il rapporto con il Pil fosse altissimo, il debito italiano è diventato sostenibile.
I COSTI DELLA MONETA UNICA previsti fin dall’inizio erano due. Primo, la perdita di sovranità sulla politica monetaria nazionale, che assicurava più flessibilità quando era necessario adeguarla a esigenze cicliche nazionali. Secondo, dato che la moneta unica per definizione elimina la possibilità di svalutare la moneta di un Paese rispetto alle altre, la correzione degli squilibri di produttività era delegata all’aggiustamento dei salari nominali. Che sarebbero potuti salire solo in funzione della produttività perché altrimenti, con un’unica moneta, si sarebbero creati grossi squilibri tra i Paesi. Gli europeisti convinti predicavano che proprio per questo (l’impossibilità di svalutare) si sarebbe creato nei Paesi membri uno stimolo a riformare i mercati del lavoro per renderli più flessibili, legando più strettamente l’andamento dei salari a quello della produttività. Ciò non è successo. Forti divergenze nella produttività del lavoro tra i Paesi membri rimangono un fattore di rischio per l’euro, un problema che nel medio periodo è forse ancor più difficile da risolvere che non gli attuali squilibri fiscali.
I quali derivano da una conseguenza negativa non prevista della moneta unica: la caduta dei tassi di interesse sui titoli di tutti i Paesi membri al livello di quelli tedeschi ha spinto molti Paesi a indebitarsi in modo eccessivo. Grecia, Spagna e Portogallo hanno accumulato debiti esteri anche prima della crisi finanziaria del 2008-09 che ha dato il colpo di grazia.
Nel nostro Paese i governi, invece di iniziare quelle riforme fiscali e strutturali che avrebbero ridotto drasticamente il rapporto debito-Pil, si sono adagiati sul fatto che il debito costava poco. La Banca centrale europea (Bce) non poteva trattare diversamente il debito di Paesi diversi.
Quindi il debito greco era “uguale” a quello tedesco e la Bce si comportava come se il ripudio del debito (default) di un Paese membro fosse impossibile. I mercati ci hanno creduto e non richiedevano premi al rischio per nessun Paese. Quando il problema Grecia è esploso gli investitori si soni svegliati, tardi e troppo bruscamente e a quel punto l’effetto-contagio e gli spread sono esplosi.
Ecco che altre due debolezze della costruzione della moneta unica si sono appalesate. La prima, più specifica, riguarda la pessima gestione della crisi greca. Si tratta di un Paese piccolo, il cui Pil è circa il 2 per cento del totale dell’area euro.
In qualche modo la sua crisi si sarebbe dovuta arginare sul nascere con un default ordinato. Invece per mesi si è trascinata una telenovela di “salvataggi” che poi fallivano. Un balletto di passi avanti e indietro che nulla ha fatto se non creare panico nei mercati, spaventati anche dalla indecisione e confusione di una mediocre leadership europea.
IL SECONDO PROBLEMA, più fondamentale, è che i Paesi membri dell’area euro sono molto restii a delegare prerogative fiscali a enti sovranazionali. Innanzitutto perché la politica di bilancio è il fulcro critico della politica tout court. Con le tasse e con la spesa pubblica si premiano gli amici e si puniscono i nemici, si creano alleanze all’interno di una generazione o tra una generazione e un’altra. È il pane quotidiano della politica, e nessun governante nazionale se ne priva facilmente. Lo abbiamo visto con il fallimento del Patto di stabilità, ignorato da Francia e Germania non appena dava loro fastidio. Inoltre perché una politica fiscale sovranazionale implica dei trasferimenti di risorse da un Paese all’altro, per esempio dalla Germania alla Grecia o all’Italia. Al di là di tutte le ingegnerie finanziarie, di fondi salva-Stati e di altre diavolerie questo è il punto che rende fragile la costruzione dell’euro. Quanto è disposto il cittadino del Paese X a trasferire al cittadino del Paese Y? Realisticamente nel medio periodo la risposta è “ben poco”.
Ecco perché non sono molto fiducioso su soluzioni europee alla crisi fiscale. I Paesi indebitati devono farcela in gran parte da soli.
Come rispondere allora alle due domande iniziali? La moneta unica è stata una scommessa rischiosa che può ancora funzionare. Molto probabilmente la Grecia, e forse il Portogallo, ne usciranno e svaluteranno ma il resto della costruzione rimarrà in piedi. Servono però alcune cose. Primo, un continuo supporto al sistema finanziario da parte della Bce perché le banche possano continuare non solo a comprare titoli pubblici ma anche a sostenere l’economia. Se poi nel breve periodo la Bce acquistasse ancora titoli pubblici faciliterebbe l’aggiustamento. Secondo, serve la volontà dei singoli membri di seguire politiche fiscali prudenti senza pesare troppo sulla crescita.
È possibile, riducendo la spesa pubblica e quindi il peso fiscale dello Stato, e anche con riforme che facilitino competizione e flessibilità.
TERZO, L’ADOZIONE di regole fiscali di comportamento per i Paesi membri può aiutare ma non è un toccasana. Regole che impediscano l’accumularsi di deficit eccessivi possono servire a governi ben intenzionati, anche se non impediranno a governi male intenzionati a violarle.
Quarto, se i Paesi con crescita della produttività minore non si rimboccheranno le maniche anche dopo essere usciti dalla crisi fiscale, la coesistenza con Paesi più produttivi rimarrebbe difficile. Infine una svalutazione dell’euro non sarebbe male: favorirebbe le esportazioni.
Nel complesso è una strada ardua ma percorribile. Un abbandono della moneta unica avrebbe effetti economici nel breve periodo difficili da prevedere. Sicuramente innescherebbe un altro caos finanziario. Nel lungo periodo sarebbe una sconfitta politica per l’Europa di dimensioni gravissime. (l'Espresso, 8 marzo 2012)

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