Il “soldatino Romano”, scrive Vittorio Feltri mettendo Prodi e i suoi in elmetto e tuta mimetica, “frigge dal desiderio di trastullarsi coi soldatini”. Una scelta pazza dovuta a una “mistura di megalomania e furbizia politica”, ammonisce Beppe Pisanu, che rischia di “portarci i kamikaze in casa”. “Mettete le bombe nei vostri cannoni”, ironizza "la Padania" sull’aria d’una canzone, accusando i nonviolenti d’aver fatto “una capriola” e gli alleati di aver “detto "sissignore” troppo in fretta". “Il nostro Paese è stato troppo precipitoso”, sentenzia Marcello Pera. Ed è tutto un coro: la sinistra corre troppo, ci vuole prudenza, non si gioca con la guerra. Andare in Libano, scrive il direttore di “Libero”, non è “come litigare con Giovanardi o con Berlusconi davanti alle telecamere”. Parole d’oro: cautela, cautela, cautela. Che gli appelli, le diffide e le intemerate contro la faciloneria della sinistra si levino da destra, però, strappa il sorriso.
Ma ve li ricordate, i severi e prudenti censori di oggi, nelle settimane in cui il governo della Cdl decise di schierarsi “senza se e senza ma” per la guerra preventiva americana decisa da George W. Bush? “Il tempo di fumarsi un sigaro e sarà già finita”, assicurò gagliardo Umberto Bossi. E appena le truppe americane entrarono nella capitale irachena, venne giù un diluvio di ironie, frecciate, risatine. Caduta Bagdad, scrisse il senatore azzurro Paolo Guzzanti, “resiste nel suo fortilizio di ipocrisia il ridotto delle squadre pacifiste. Quel che impressiona in questa vicenda è proprio la corazza da 8 centimetri di ipocrisia rafforzata con la menzogna. Infatti, se Giraudoux poteva annunciare con una sua famosa e surreale opera teatrale che "La guerra di Troia non si farà", il quartier generale della malafede e del ridicolo può oggi annunciare con fervida faccia di bronzo che la manifestazione per la pace si farà. Quale pace, se la pace è già scoppiata come un’arma di costruzione di massa nelle piazze di Bagdad, con curdi e sciiti e sunniti che gridavano "Viva Bush", sventolando la bandiera a stelle e strisce?” Non meno dura fu la rampogna alla sinistra di Elio Vito: “Quando trionfano, come stanno trionfando, la libertà e la democrazia, tutte le parti politiche debbono rallegrarsene”. Proprio un trionfo? Altroché. Parola del ministro della difesa Antonio Martino: “Quella anglo-americana è stata un’azione militare di grandissimo successo, rapida e con un numero di vittime assai contenuto”. Rischi? Zero, rassicurava il ministro degli interni. Titolo dell’Ansa: “Pisanu, guerra in Iraq non ha aggravato minacce”. “La sinistra, sia pure divisa fra posizioni più moderate, e posizioni dominate da un anti-americanismo arrabbiato può solo celebrare, nella prossima manifestazione (pacifista) la sua sconfitta”, scriveva “Il Giornale” berlusconiano. Di più, rincarava Sandro Bondi: “Deve fare un impietoso esame autocritico e una seria riflessione sui propri errori, pena la sua sparizione come forza credibile di fronte alla nazione”. “Ma sta zitto, filosofo da osteria!”, sbottava Claudio Martelli liquidando in un dibattito tivù un Massimo Cacciari perplesso sul fatto che la guerra fosse davvero finita. E lo stesso Pera, nelle vesti di presidente del Senato, non mancò di manifestare il suo disappunto per l’attardarsi dell’opposizione italiana nell’analisi di ciò che stava succedendo: “Sono sorpreso e talvolta anche sconcertato dalla qualità poverissima del dibattito italiano sulla guerra, mentre la politica e la diplomazia internazionale già si occupano del ‘dopo Saddam’”. “Coloro che speravano che la guerra fosse lunga per poter dare corso al loro livore antiamericano sono serviti”, gongolava Ignazio La Russa proponendo “la rottamazione delle bandiere arcobaleno”. “Un’altra opposizione avrebbe avuto il coraggio di riconoscere i meriti del nostro governo”, sospirava Renato Schifani, “purtroppo non è stato così. I fatti ci dicono che l’Ulivo è spiazzato dalle giuste strategie italiane in politica estera, e per il piano di aiuti umanitari varato dall’esecutivo in soccorso delle popolazioni liberate, che il governo saprà gestire con efficienza e incisività”. Certa che la "pax americana" fosse bella e acquisita, Isabella Bertolini gorgheggiava: “Le immagini televisive che ci mostrano la popolazione irachena in festa hanno annichilito le sinistre italiane sfatando tutte le loro previsioni disfattiste in una guerra lunga e sanguinosa”. “Le reazioni di giubilo iracheno confermano la correttezza delle posizioni del Governo mentre Francia e Germania sono con le pive nel sacco”, confermava Roberto Calderoli. “Quelle scene di gioia che stanno scorrendo davanti ai nostri occhi rendono evidente che l’intervento armato pone le premesse di un nuovo ordine mondiale”, ribadiva Francesco D’Onofrio, spiegando che “lo schianto del regime di Saddam” faceva “giustizia dei non pochi catastrofismi che abbiamo ascoltato e letto nel corso delle operazioni militari”. “Le profezie nefaste di quanti preconizzavano una guerra lunghissima con centinaia di migliaia di profughi sono state smentite”, esultava la capogruppo europeo di An Cristiana Muscardini. “Bagdad è libera e la sinistra in lutto”, diceva un comunicato leghista. “Berlusconi, senza entrare in guerra, l’ha vinta”, sintetizzava Gianfranco Rotondi.
Quanto a lui, il Cavalier che nel 1996 aveva fatto gli auguri a Prodi sperando che non avesse “a che fare con cose più grandi di lui” (“Ve l’immaginate davanti a una dichiarazione di guerra?”) si presentò a un comizio come Adriano in trionfo a Gerasa. Per cominciare, rassicurò gli italiani dubbiosi sul futuro: “Mi rallegro che la guerra sia finita e anche che sia stata rapida e abbia causato meno vittime di quanto si potesse temere”. Poi frustò “gli uomini della sinistra che speravano che le forze alleate sarebbero rimaste impantanate come in Vietnam” senza capire l’obiettivo di “realizzare un sistema democratico per garantire la libertà che è un bene che si diffonde positivamente su tutti”. Quindi rivendicò: “Il nostro filo-americanismo è stata una posizione vincente, che ha condannato i gargarismi antimilitaristi”. L’anno dopo, mentre arrivavano notizie quotidiane sempre più sconvolgenti, insisteva: “Qualcuno da noi parla di un ovattato clima antiamericano, ma io non ci credo. Le elezioni regolari saranno la conseguenza di uno Stato ben funzionante. Ormai in Iraq c’è una vita regolare, ci sono le scuole eccetera. Poi, certo, ci sono le cose che non funzionano: ad esempio, i semafori a Bagdad non funzionano...” Cosa sia successo poi è sotto gli occhi di tutti.
(Gian Antonio Stella - Corriere della Sera)Ma ve li ricordate, i severi e prudenti censori di oggi, nelle settimane in cui il governo della Cdl decise di schierarsi “senza se e senza ma” per la guerra preventiva americana decisa da George W. Bush? “Il tempo di fumarsi un sigaro e sarà già finita”, assicurò gagliardo Umberto Bossi. E appena le truppe americane entrarono nella capitale irachena, venne giù un diluvio di ironie, frecciate, risatine. Caduta Bagdad, scrisse il senatore azzurro Paolo Guzzanti, “resiste nel suo fortilizio di ipocrisia il ridotto delle squadre pacifiste. Quel che impressiona in questa vicenda è proprio la corazza da 8 centimetri di ipocrisia rafforzata con la menzogna. Infatti, se Giraudoux poteva annunciare con una sua famosa e surreale opera teatrale che "La guerra di Troia non si farà", il quartier generale della malafede e del ridicolo può oggi annunciare con fervida faccia di bronzo che la manifestazione per la pace si farà. Quale pace, se la pace è già scoppiata come un’arma di costruzione di massa nelle piazze di Bagdad, con curdi e sciiti e sunniti che gridavano "Viva Bush", sventolando la bandiera a stelle e strisce?” Non meno dura fu la rampogna alla sinistra di Elio Vito: “Quando trionfano, come stanno trionfando, la libertà e la democrazia, tutte le parti politiche debbono rallegrarsene”. Proprio un trionfo? Altroché. Parola del ministro della difesa Antonio Martino: “Quella anglo-americana è stata un’azione militare di grandissimo successo, rapida e con un numero di vittime assai contenuto”. Rischi? Zero, rassicurava il ministro degli interni. Titolo dell’Ansa: “Pisanu, guerra in Iraq non ha aggravato minacce”. “La sinistra, sia pure divisa fra posizioni più moderate, e posizioni dominate da un anti-americanismo arrabbiato può solo celebrare, nella prossima manifestazione (pacifista) la sua sconfitta”, scriveva “Il Giornale” berlusconiano. Di più, rincarava Sandro Bondi: “Deve fare un impietoso esame autocritico e una seria riflessione sui propri errori, pena la sua sparizione come forza credibile di fronte alla nazione”. “Ma sta zitto, filosofo da osteria!”, sbottava Claudio Martelli liquidando in un dibattito tivù un Massimo Cacciari perplesso sul fatto che la guerra fosse davvero finita. E lo stesso Pera, nelle vesti di presidente del Senato, non mancò di manifestare il suo disappunto per l’attardarsi dell’opposizione italiana nell’analisi di ciò che stava succedendo: “Sono sorpreso e talvolta anche sconcertato dalla qualità poverissima del dibattito italiano sulla guerra, mentre la politica e la diplomazia internazionale già si occupano del ‘dopo Saddam’”. “Coloro che speravano che la guerra fosse lunga per poter dare corso al loro livore antiamericano sono serviti”, gongolava Ignazio La Russa proponendo “la rottamazione delle bandiere arcobaleno”. “Un’altra opposizione avrebbe avuto il coraggio di riconoscere i meriti del nostro governo”, sospirava Renato Schifani, “purtroppo non è stato così. I fatti ci dicono che l’Ulivo è spiazzato dalle giuste strategie italiane in politica estera, e per il piano di aiuti umanitari varato dall’esecutivo in soccorso delle popolazioni liberate, che il governo saprà gestire con efficienza e incisività”. Certa che la "pax americana" fosse bella e acquisita, Isabella Bertolini gorgheggiava: “Le immagini televisive che ci mostrano la popolazione irachena in festa hanno annichilito le sinistre italiane sfatando tutte le loro previsioni disfattiste in una guerra lunga e sanguinosa”. “Le reazioni di giubilo iracheno confermano la correttezza delle posizioni del Governo mentre Francia e Germania sono con le pive nel sacco”, confermava Roberto Calderoli. “Quelle scene di gioia che stanno scorrendo davanti ai nostri occhi rendono evidente che l’intervento armato pone le premesse di un nuovo ordine mondiale”, ribadiva Francesco D’Onofrio, spiegando che “lo schianto del regime di Saddam” faceva “giustizia dei non pochi catastrofismi che abbiamo ascoltato e letto nel corso delle operazioni militari”. “Le profezie nefaste di quanti preconizzavano una guerra lunghissima con centinaia di migliaia di profughi sono state smentite”, esultava la capogruppo europeo di An Cristiana Muscardini. “Bagdad è libera e la sinistra in lutto”, diceva un comunicato leghista. “Berlusconi, senza entrare in guerra, l’ha vinta”, sintetizzava Gianfranco Rotondi.
Quanto a lui, il Cavalier che nel 1996 aveva fatto gli auguri a Prodi sperando che non avesse “a che fare con cose più grandi di lui” (“Ve l’immaginate davanti a una dichiarazione di guerra?”) si presentò a un comizio come Adriano in trionfo a Gerasa. Per cominciare, rassicurò gli italiani dubbiosi sul futuro: “Mi rallegro che la guerra sia finita e anche che sia stata rapida e abbia causato meno vittime di quanto si potesse temere”. Poi frustò “gli uomini della sinistra che speravano che le forze alleate sarebbero rimaste impantanate come in Vietnam” senza capire l’obiettivo di “realizzare un sistema democratico per garantire la libertà che è un bene che si diffonde positivamente su tutti”. Quindi rivendicò: “Il nostro filo-americanismo è stata una posizione vincente, che ha condannato i gargarismi antimilitaristi”. L’anno dopo, mentre arrivavano notizie quotidiane sempre più sconvolgenti, insisteva: “Qualcuno da noi parla di un ovattato clima antiamericano, ma io non ci credo. Le elezioni regolari saranno la conseguenza di uno Stato ben funzionante. Ormai in Iraq c’è una vita regolare, ci sono le scuole eccetera. Poi, certo, ci sono le cose che non funzionano: ad esempio, i semafori a Bagdad non funzionano...” Cosa sia successo poi è sotto gli occhi di tutti.
“Io non sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per arrivare a rendere democratico un paese
e a farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa”.
“Io - ha detto ancora il premier, a pochi giorni dall’inchiesta di Repubblica sulle responsabilità del governo italiano nella costruzione
di prove false sulle armi irachene - ho tentato a più riprese di convincere il presidente americano a non fare la guerra (…).
Ho tentato di trovare altre vie e altre soluzioni, anche attraverso un’attività congiunta con il leader africano Gheddafi.
Non ci siamo riusciti e c’è stata l’operazione militare (…).
Io ritenevo che si sarebbe dovuta evitare un’azione militare”
Silvio Berlusconi, in un'intervista a La7
31 ottobre 2005
Il giornalista Bruno Vespa cita a testimonianza di quanto afferma Berlusconi il proprio libro, Il Cavaliere e il Professore:
“Ho sempre temuto l’impresa militare in Iraq. In due successivi colloqui con il presidente Bush ho espresso queste riserve, cercando di convincerlo a non intraprendere l’azione militare.
Gli avevo anche suggerito di subordinarla a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.
Balle Spaziali ... le definirà qualcuno.
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