venerdì 3 marzo 2006

Iran. Quale futuro?


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Iran. Quale futuro?


A 28 anni dalla rivoluzione, la Repubblica Islamica affronta il momento più critico della propria storia.
E’ in corso il passaggio di potere tra i vecchi clerici settantenni e la seconda generazione di rivoluzionari.
Contemporaneamente, i rapporti con gli USA, a causa del controverso programma nucleare, non sono mai stati peggiori.
Il potere reale attuale deve la propria legittimità alla cacciata dello Shah, nel 1978.
Tuttavia, quello instaurato dall’ayatollah Khomeini è un regno spirituale ormai stanco.


E’ quanto pensa Mahan Abedin, un americano di origine iraniana che lavora per la Jameston Foundation, certamente tra i massimi esperti del regime persiano.



La popolazione negli ultimi cento anni è raddoppiata, arrivando a 70 milioni. Più della metà, quindi, ha un’età inferiore ai 17 anni.
Il 60% è analfabeta. Il 60% dei tossicodipendenti ha tra i 14 ed i 16 anni.
Questi ragazzi, soprattutto nelle città, avanzano richieste di pluralismo e di liberalizzazione morale, contro l’ipocrisia dei grandi teologi che citano il Corano ma che vivono nel lusso, dividendosi i proventi del petrolio, controllando con mano di ferro i monopoli economici e commerciali, secondo una gestione clientelare.
Non sopportano che gli venga negata persino la possibilità di ascoltare musica pop.
Loro non hanno vissuto il regime da cui ebbe origine la rivoluzione religiosa.

Amhadinejad e la ristretta cerchia che sta dietro di lui lo sanno. Vogliono dare nuovo slancio a tale rivoluzione.
Hanno conquistato la propria legittimità sul campo, in una lunga guerra contro Saddam, armato dagli americani negli anni ’80. Una guerra vinta.
Ahmadinejad stesso viene dalle file delle guardie rivoluzionarie Pasdaran.
Uomini votati alla morte, fortemente ideologizzati, che hanno visto cadere centinaia di migliaia dei loro coetanei, sviluppando un nazionalismo estremo e una visione messianica della supremazia sciita sull’Islam.
L’ayatollah Ali Khamenei, il capo spirituale della repubblica islamica, non sembra avere alcun effetto su di loro.

Apparentemente, non cercano l’arricchimento privato: Ahmadinejad, anche con il suo stile di vita semplice, ha conquistato i voti delle masse impoverite che hanno creduto alle sue promesse egualitarie e sociali, indicate come l’essenza della rivoluzione di Khomeini , “il puro”.
Da agosto 2005, in pochi mesi di governo, Ahmadinejad ha sostituito importanti banchieri e personalità a capo delle finanze con compagni d’armi, giovani con un passato nei Pasdaran, cambiando profondamente l’esecutivo.
Lo stesso ha fatto con i propri ambasciatori, mettendo al loro posto uomini inesperti.
Gli attesi progressi economici e sociali, tuttavia, non si vedono.
Questo perché, come detto, il potere reale è ancora nelle mani dei vecchi clerici e della loro fitta rete di controllo clientelare del paese.

Da qui, molto probabilmente, tutti gli atteggiamenti provocatori verso gli USA.
La devastazione di una guerra rappresenta l’occasione di una «catarsi completa», la purificazione del regime dal “pensiero occidentale”.

I riformisti e i moderati sanno bene che un’aggressione americana sarebbe la fine, per almeno un’altra generazione, dell’emergente movimento pluralista, se non democratico, che nasce dal basso, dagli studenti di Teheran e dai ceti urbani.
E’ loro chiaro che gli estremisti della «seconda generazione» approfitteranno dello stato di guerra per prendere il pieno controllo della politica interna ed estera.

Gli ayatollah temono, a ragione, che un’economia di guerra porterebbe allo smantellamento di quella rete che oggi assicura loro potere e privilegi.

Ahmadinejad sa che, per le caratteristiche geografiche e demografiche, gli americani non potrebbero occupare il suolo ma effettuerebbero una lunga campagna di bombardamenti ad intervalli regolari, affiancata da un severo embargo ed isolamento internazionale.
Ha resistito Saddam per anni. Possono benissimo farlo loro.
A meno che non gli arrivi in testa una bomba atomica.

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